A cuore aperto
- Autore: Elie Wiesel
- Casa editrice: Bompiani
- Anno di pubblicazione: 2013
“Il piccolo Elijah, cinque anni, viene a trovarmi……..
‘Nonno, tu sai che ti voglio bene; e so quanto male hai. Dimmi: se ti volessi più bene, avresti meno male?’
In quel momento ne sono convinto: Dio contempla la Sua creazione sorridendo”.
Giugno 2011. Dolori intensi al petto, ma la causa non è il solito, fastidiosissimo reflusso esofageo che lo tormenta da tempo. Sottoposto ad endoscopia, la causa della sofferenza è presto individuata: si tratta del cuore. Responso spiazzante.
Elie Wiesel, uno dei più illustri testimoni del nostro tempo, autore di circa 60 opere, dev’essere ricoverato d’urgenza all’Ospedale Lenox Hill di New York per sottoporsi ad un delicato intervento chirurgico. Sulle prime è recalcitrante. Con l’amata moglie Marion, la compagna di una vita, è appena ritornato da Gerusalemme dove hanno trascorso la festa di Shavuot insieme con una coppia di amici. Tutto è andato per il meglio ed ora ci sono tanti impegni da onorare: conferenze, articoli, interviste, incontri con allievi… e l’enorme volume autobiografico My Masters and My Friends, alla cui composizione sta lavorando, non intende essere trascurato.
E’ paradossale come i problemi di salute, spesso accompagnati dal fattore sorpresa, siano in grado di mandare all’aria solidi programmi elaborati con cura.
Alle spalle dell’Incredulità per la diagnosi fa capolino, e domina la scena poco dopo, la Paura: paura di andare “sotto i ferri”, dell’anestesia totale, il terrore di non risvegliarsi più. E chi non lo ha provato?
Confessa di temere la morte, ma soprattutto non si sente affatto pronto. “Tante cose ancora da portare a termine….tante sfide da affrontare. Tante preghiere da comporre. Tante parole da trovare, tanti silenzi da far cantare”.
Tuttavia, grazie al sostegno amorevole della moglie e di Elisha, il diletto figlio, lo scrittore si fa coraggio e prende in mano la situazione.
Egli entra così in un mondo impalpabile, indefinibile, al confine tra la vita e la morte, del quale ci fa partecipi attraverso le riflessioni che, una volta risanato, dopo una convalescenza dolorosa sotto tutti i punti di vista, mette per iscritto. Una confessione A cuore aperto, come l’intervento chirurgico subito.
In quel mondo che riesce a ricostruire affiorano, talora appena abbozzati, più spesso nitidi, volti, ricordi, sentimenti, pensieri.
Si rivede ragazzino di dieci o undici anni, allorché viene condotto dai genitori all’ospedale ebraico per l’asportazione dell’appendice. E’ spaventato, ma una giovane e bella assistente del chirurgo lo rincuora. Immagine di sogno, che torna spesso nelle sue fantasie di adolescente.
La famiglia d’origine: i nonni, la mamma, la sorellina Tziporah, tutti uccisi all’arrivo ad Auschwitz, ma presenti ad ogni istante della sua vita, il padre Shlomo, con il quale divide la prigionia e che morirà a Buchenwald -a pochi giorni dalla liberazione-, lasciandolo solo e disperato.
L’eterna insoddisfazione nel ripensare alle sue opere, quell’angoscia di non essere stato efficace negli scritti su “questo Avvenimento” (la Shoah, certo), pur nella consapevolezza che
“chi non ha vissuto la morte laggiù non capirà mai ciò che noi, i sopravvissuti, vi abbiamo patito dal mattino alla sera, sotto un cielo muto”.
Apparente silenzio di D-o, concreto silenzio degli uomini.
E, mia domanda, chi non è ritornato? E coloro che la tragedia l’hanno vissuta fino in fondo?
Passa in rassegna alcuni tra i libri scritti: La Notte -sul problema del rapporto tra l’infinita bontà di D-o e la presenza del male nel mondo, la teodicea-; L’alba -sulla lotta dei partigiani ebrei contro la potenza occupante britannica nella Palestina mandataria- vede un sopravvissuto ai campi di sterminio alla prese con l’ordine di “giustiziare” un ufficiale nemico; Il Giorno racconta di un giovane giornalista investito da un taxi a New York (chiara allusione autobiografica): banale incidente o tentato suicidio? Ne La città della fortuna ecco la tentazione della follia.
Gli Ebrei del silenzio è motivo di orgoglio perché racconta degli Ebrei russi i quali, grazie all’intervento coraggioso ed incessante di Wiesel, riuscirono a liberarsi della dittatura comunista e a raggiungere i loro fratelli in Terra di Israele. Uno dei pochi Premi Nobel per la Pace davvero degno di questo nome, quello assegnatogli nel 1986.
Che dire poi di Le Mendiant de Jérusalem (scritto nel 1968, non tradotto in Italia)? Quel mendicante incontrato a Gerusalemme, davanti al Kotel, durante la Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967, teneva a spiegare l’aspetto miracoloso
“della grande vittoria dell’esercito ebraico sui suoi nemici. Perché, diceva, in quella guerra esso contava sei milioni di anime in più”.
...
Oggi ci sono Marion, la sua stella polare, ed Elisha, il figlio amato fin dall’istante in cui ha visto la luce:
“Quella creaturina…bisognava proteggerla. E il modo migliore….era cambiare il mondo in cui sarebbe cresciuto”.
Un figlio davvero amato sarà un ottimo genitore. Come Elisha.
Conserverò sempre con affetto e gratitudine il ricordo degli incontri avuti con Elie Wiesel a Bologna, quando, nell’inverno 2000, presso l’Aula Magna di S. Lucia della nostra Università, tenne sei memorabili lezioni sul Talmud (raccolte poco dopo in volume da Bompiani), nel suo inglese luminoso, scandito da una voce da interprete shakespeariano, davanti ad una foltissima platea attenta e commossa.
Consegnata alla grande Storia è la costante attività in difesa dei diritti umani in tutto il mondo, contro l’odio ben orchestrato e il risorto antisemitismo: nel 2007 scampò ad un tentativo di sequestro ed è incredibile che a New York debba vivere sotto scorta e che, ovunque vada, sia obbligato ad usare un falso nome. Attività rafforzata dalla sua Fede, una fede ebraica, che gli fa dire, con la Scrittura: “Ubakharta Bakhaim” (Sceglierai la Vita).
Un libretto breve ed accorato, da leggere e meditare come un brano della Bibbia, ricco di Amore in D-o e, nonostante tutto, di Speranza negli uomini.
A cuore aperto
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