Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994)
- Autore: Anna Ferrando
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Carocci
- Anno di pubblicazione: 2023
Forse la casa editrice Adelphi, per motivi diversi e anzi opposti, è quella che assieme a Einaudi nel secolo scorso ha maggiormente segnato un ethos, una cifra culturale e una visione del mondo riconoscibile, sebbene, fortunatamente, non priva di contraddizioni e, soprattutto, ancora in vita. Quanto la seconda si incaricava nel dopoguerra di indirizzare la cultura del paese verso un orizzonte progressista e materialista per porsi di fatto alla testa di quell’egemonia culturale che oggi altri credono di poter imporre quasi per decreto, tanto la casa editrice che i più identificano (un po’ a torto) con la figura del direttore editoriale Roberto Calasso (scomparso nell’estate del 2021) si propose di individuare testi eterodossi, di marcata impronta irrazionalistica, insofferenti al materialismo marxista dominante e per certi aspetti alla cultura di sinistra in generale. I “libri unici”, irripetibili, ancor prima che disturbanti e alieni, erano l’ossessione di Bobi Bazlen, una delle teste a monte dell’operazione ben prima che di fatto Adelphi esordisse in libreria.
Il complice della gestazione fu Luciano Foà, ex comunista ed ex uomo Einaudi, marchio che invece puntava sul lavoro organico, sul catalogo, peraltro assai cospicuo e architettato in una serie di collane. Ben ce lo racconta e mostra la studiosa Anna Ferrando in uno studio documentatissimo pubblicato da Carocci (Adelphi, Le origini di una casa editrice, 1938-1994), in cui fa esattamente (e correttamente) quel genere di operazione cui l’editore che curò l’edizione critica dell’opera omnia di Nietzsche era allergico: storicizzare. E per farlo l’autrice si avvale di archivi privati, di quelli della Fondazione Mondadori, di Einaudi - Adelphi non ha ritenuto di dover collaborare - e di molti dati, analisi e testimonianze.
A partire, giusto il titolo, dalle origini dell’impresa ben prima che essa si materializzasse negli splendidi manufatti cartacei che tutti conoscono. Come detto, Luciano Foà, Bobi Bazlen sono i due numi tutelari da tener presenti per avviare la ricognizione di questa storia editoriale che comincia idealmente alla fine degli anni Trenta; alle cogitazioni dei due si aggiunsero l’interesse dell’Agenzia Letteraria Internazionale di Erich Linder, i capitali dell’imprenditore Alberto Zevi e quelli successivi di Olivetti. L’esordio concreto sarebbe arrivato solo negli anni Sessanta.
Si diceva della distanza che Foà e Bazlen marcarono dalla Einaudi - niente storicismo, niente pedagogismo, nessuna prospettiva ideologica condizionante. L’impolitico piuttosto, il demone individuale, l’irrazionale, l’eretico, il mistico - e nessuna paura di apparire cedevoli rispetto a testi (spesso bellissimi) e personaggi a vario modo destrorsi. Ora, se appare iperbolico sostenere come fanno alcuni che si sia impostato il lavoro come implicito, volontario progetto conservatore o addirittura reazionario, è certo che il numero di scrittori adelphiani dichiaratamente di destra, resta importante ed è sempre stato motivo di polemiche accese. Non credendo alle magnifiche sorti e progressive di impianto illuministico, le menti adelphiane, rischiando talvolta abbagli clamorosi, ebbero però il merito di aprire lo scenario italiano a temi e opzioni estetico-filosofiche che per altri editori sarebbero stati impensabili. Un passaggio importantissimo – e meritorio - nella costruzione del catalogo (perché poi nel tempo un catalogo si è costruito eccome, e anch’esso articolato su diverse collane), fu, si diceva prima, l’opera critica di Nietzsche, inviso alla cultura italiana di sinistra uscita dalla guerra.
L’irrazionalismo in genere era la bestia nera (il caso di dire) di Einaudi e del progressismo più o meno marxista, ma l’edizione critica di Nietzsche a cura di Mazzini-Montanari sarebbe stata poi fondamentale anche per una rilettura del filosofo tedesco da sinistra (specialmente in Francia). E se Freud e la psicoanalisi sarebbero finalmente entrati nella cultura italiana dopo gli anni sciagurati del Fascismo e dell’interdetto crociano, occorre aggiungere, come fa l’autrice, che anche su quel versante Adelphi privilegiò il magistero più esoterico di Jung a quello freudiano, attraverso la figura di Ernst Bernhard (e la sua Mitobiografia), ebreo come gli artefici della casa editrice, sensibile, anche se non pedissequamente, a certo côté magico di Jung (e amico di Fellini, anch’egli interessato a una certa simbolica astrologica nonché mediatore dell’ingresso di Simenon in casa editrice).
Nella saggistica, specie nei primi tempi prevalsero dunque libri originali, critici rispetto ai canoni delle rispettive discipline, col senno di poi a volte entusiasmanti a volte assai meno: si pensi al Groddeck de Il linguaggio dell’Es, libro di immeritata fortuna, che un lettore odierno sufficientemente attrezzato non può prendere troppo sul serio – fra i vari critici di alcune operazioni editoriali, come quella dei "Saggi", Eugenio Montale. Peraltro, tornando al contrasto con Einaudi, va ricordato che proprio dall’impossibilità di pubblicare Nietzsche scaturì lo strappo definitivo di Foà. Se di una qualche filiazione einaudiana si può parlare va cercata nella “Collana Viola” di Cesare Pavese ed Ernesto de Martino, aperta agli studi religiosi ed etnologici, che pure un suo spazio all’interno dello struzzo torinese lo trovò a fatica. Tre furono i cardini dell’impostazione editoriale dell’Adelphi: il fantastico, certo spiritualismo (specie orientale), la Mitteleuropa. Il primo soprattutto non a caso segna la prima uscita della Biblioteca Adelphi, la collana più riconoscibile, nel nome di Alfred Kubin, artista austriaco autore di un unico romanzo, L’altra parte, allucinazione illustrata che Bazlen volle a tutti i costi come a sigillare un’impronta archetipica al marchio. Il fantastico sarebbe poi sconfinato talora nel fantasy (si pensi a Tolkien), dall’Estremo Oriente sarebbero arrivati l’ I Ching e Milarepa, gli studi di Zimmer e Doniger, dall’Europa centrale Roth (Joseph) e Kundera, Bernhard (Thomas) e Wedekind.
La casa editrice per anni versò in cattive acque economiche per tener fede all’impegno di fare solo libri di cui fosse culturalmente convinta; col tempo sarebbe diventata meno elitaria e avrebbe guadagnato invece molti lettori, anche quelli affascinati dal marchio senza gli strumenti per distinguere la qualità da operazioni più corrive – di fatto da un Robert Walser si scendeva qualche gradino più giù fino al Siddharta di Hermann Hesse - fu un longseller difficilmente pareggiabile quanto a fortuna economica: peraltro, il libro di lunga durata era uno degli obiettivi già alle origini quando non si immaginavano certe possibili derive pop implicite invece nell’estensione di un catalogo sempre più eclettico.
Un altro titolo importante per gli assetti economici fu La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth, non casualmente non uno dei suoi libri migliori. Ugualmente, per rimanere nell’ambito finzionale, sul versante italiano potrebbe dirsi degli apporti imparagonabili di un Guido Morselli (incompreso dagli altri editori) o Manganelli (il cui contributo andò oltre la pubblicazione di opere proprie) a nomi che francamente non vale la pena di ricordare.
Roberto Calasso, che arrivò in casa editrice giovanissimo ma con piglio assai deciso, ebbe fra i suoi molti meriti quello di far esordire Aldo Busi con il Seminario sulla gioventù.
Tuttavia, lascia un po’ di amarezza la lettura delle pagine conclusive di questa ricognizione meritoria, documentatissima, ma per forza di cose non esaustiva. Ferrando vi racconta del come e del perché una figura fondamentale come quella di Foà si fosse decisa a lasciare l’impresa nel 1994, quando Calasso impose la pubblicazione di un titolo di Léon Bloy, Dagli ebrei la salvezza – titolo incauto perché antifrastico, che l’ebreo fondatore di Adelphi non poteva accettare.
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