“Era proprio una lucciola, nella crepa del muro. Ne ebbi una gioia intensa. E come doppia. E come sdoppiata. La gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia, i ricordi, questo stesso luogo ora silenzioso pieno di voci e di giuochi – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Per Pasolini. Pasolini ormai fuori del tempo ma non ancora, in questo terribile paese che l’Italia è diventato, mutato in se stesso ( "Tel qu’en Lui-même enfin l’éternité le change"). Fraterno e lontano, Pasolini per me”.
Così si legge nell’introduzione, una delle più belle pagine della narrativa degli ultimi trent’anni, scritta da Sciascia al suo libro L’affaire Moro (Sellerio, 1978), che in copertina reca il disegno di Fabrizio Clerici L’uomo solo.
L’andamento è dolcemente proustiano, ma il bisogno di un tempo altro, quello d’una ragionevole giustizia non estranea alla pietà, ha una luce sia pure intermittente: quella della lucciola pasoliniana che è speranza in un paese come l’Italia avvolto in se stesso, oscuro e tenebroso.
Pasolini e le lucciole: la ripresa di una corrispondenza dopo oltre vent’anni; Pasolini e il processo al “Palazzo”. Di lui Sciascia ricorda il libro Empirismo eretico, dove il poeta e scrittore friulano aveva parlato del linguaggio di Moro basato sull’incomunicabilità: il nuovo latino, il "latinorum" che fa scattare d’impazienza Renzo Tramaglino.
Poi, la corsa verso il vuoto e la scomparsa delle lucciole quando finisce il primo ciclo del regime democristiano, affermatosi nell’immediato secondo dopoguerra. L’onorevole Moro, che nella fase di transizione, cioè durante la scomparsa delle lucciole, ha adottato coi democristiani un linguaggio incomprensibile (“il non dire” quasi scientifico), secondo la definizione di Pasolini è “il meno implicato di tutti” nelle trame di potere, negli scandali, nelle corruzioni, nei fatti orribili dal ‘69 ad oggi.
Per questo, scrive Sciascia è “destinato a più enigmatiche e tragiche correlazioni”.
L'affaire Moro
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Aldo Moro secondo Sciascia
Prigioniero dei brigatisti (“Figli, nipoti o pronipoti del comunismo stalinista”) nel nascondiglio sicuro del popolo, con il loro consenso Aldo Moro scrive lettere (da cinquanta a settanta) che segretamente sono recapitate a Leone, Andreotti, Ingrao, Fanfani, Misasi, Piccoli e Craxi, oltre che ai familiari. Da un certo punto in poi sono rese pubbliche dalle stesse Brigate rosse. Sciascia le analizza, le interpreta e le racconta con la tenacia dell’argomentazione, convinto che, all’insegna dell’autocensura, nascondano il “sotto-testo” del “nondire”.
All’inizio della ricostruzione della vicenda, Sciascia utilizza delle Finzioni di Borges il racconto intitolato Pierre Menard, autore del "Chisciotte", volendo dire che è la letteratura ad anticipare profeticamente la realtà. Le sferzate alla Democrazia Cristiana, partito-famiglia, si toccano con mano, anche se questo libro, ritenuto un rovente "pamphlet" d’invettiva politica, è essenzialmente d’una religiosità più cristiana dei sostenitori di valori cristiani, per la restituzione dell’immagine di un uomo solo e isolato, stremato nella stanza della tortura da interrogatori e tuttavia lucidissimo.
L’abbandono degli amici, privandolo di ogni forma di autorità, è la sigla della sua condanna a morte. Moro è un uomo finito: a vederlo in televisione, appare preda della stanchezza e della noia e le sue speranze poggiano ormai sull’accettazione del patteggiamento con il conseguente scambio di prigionieri. Astuto il raggiro dello stalinismo consapevole:
“Le Brigate rosse hanno fatto in modo che "l’infame ricatto" apparisse voluto e sollecitato soltanto da Moro […]. Era ora affar suo, di Moro, convincere "gli amici" del governo al baratto”.
Moro, spiega Sciascia, pur non essendo un eroe e né preparato all’eroismo, non ha paura della morte, ma non vuole morire di quella morte e tenta di allontanarla da sé. A prevalere è piuttosto la retorica della forza dello Stato contro ogni cedimento, sono gli astratti principi dettati dalla ragione di Stato a imporsi sulla difesa della vita umana. Sicché, l’onorevole presidente si sente abbandonato e vittima di due stalinismi i quali avvicinandosi schiacciano l’uomo che ci sta in mezzo:
"Lo stalinismo consapevole, apertamente violento e spietato delle Brigate rosse che uccide senza processo i servitori del SIM e con processo i dirigenti; e lo stalinismo subdolo e sottile che sulle persone e sui fatti opera come sui palinsesti: raschiando quel che prima vi si leggeva e riscrivendolo per come al momento serve".
La lettera che arriva ai giornali nel pomeriggio del 10 aprile traccia una biografia dell’onorevole Taviani che diverte tutti. Essa appare a Sciascia una delle più sciolte che Moro abbia scritto:
“Moro comincia, pirandellianamente, a sciogliersi dalla forma, poiché tragicamente è entrato nella vita. Da personaggio ad "uomo solo", da "uomo solo" a creatura: i passaggi che Pirandello assegna all’unica possibile salvezza”.
Un fatto è chiaro: per suggestione o perché convinto, Moro, che si esprime come le Brigate rosse e per loro conto, non è più quello conosciuto: perciò, la condanna a morte è inevitabile, voluta dagli stessi vecchi amici di partito, rivelando taluni infamia e malafede. Questo in sintesi l’esito dell’indagine di Sciascia che scopre l’uomo spogliato di ogni privilegio: nulla in definitiva è stato fatto per liberarlo dal “carcere del popolo”, e invece poteva essere salvato dall’esecuzione della sentenza di morte. Di “immobilità” e di “rifiuto” parlano i familiari di Moro e Andreotti subito dopo scrive di pugno il comunicato del governo che non intende derogare al principio della fermezza.
Sciascia, riferendosi all’ironia dolorosamente amara di Moro, così ne tratteggia un aspetto della personalità:
"Non pare abbia mai avuto letizia del potere. L’ha amato, ma l’ha anche sofferto. L’essere tra gli “altri” il migliore, e il dover disprezzarli, forse gli dava cristiana misura della propria miseria. Ed era questa la differenza tra lui e gli “altri”; e la ragione per cui tra gli “altri” - e in un certo senso dagli “altri” - è stato prescelto alla morte".
Pagine sferzanti, infine, quelle dedicate alle Brigate rosse, il cui agire assimilato a quello adottato dalla mafia non ha nulla di rivoluzionario. Le riflessioni sono un capolavoro di acutezza socio-politica e fanno meditare sulle imposture in quella terribile primavera del ‘78.
Recensione del libro
L’affaire Moro
di Leonardo Sciascia
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: "L’affaire Moro": Sciascia racconta Aldo Moro
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