Dagli anni Sessanta si vive in un Paese dove avviene un veloce cambiamento antropologico: in particolare, comincia ad affermarsi il consumismo in stretto legame con lo sviluppo industriale che provocava lo sradicamento della civiltà contadina. Paladino del pensiero critico, Pasolini è profetico riguardo alla società in fase di transizione (gli sviluppi delle storture del capitalismo sarebbero state più vistose tra gli anni Settanta e Ottanta).
Il suo sguardo si fa sempre più pessimistico: Pasolini, sentendosi intrappolato nell’omologazione delle diversità, si serve della parola poetica e della forza della scrittura per rappresentare ciò che non è umano e per combattere ogni sorta di sopruso.
Limpidamente risuona la sua voce contro il Potere e nel condannare lo sviluppo industriale, causa della scomparsa delle lucciole, avverte il “male di vivere” giacché il sogno di essere poeta è gravemente minacciato.
Da tale angolazione non può non coinvolgere la poesia Al Principe.
“Al Principe” di Pier Paolo Pasolini: testo e analisi della poesia
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Inserita nella raccolta La religione del mio tempo ha un modulo argomentativo dall’andamento lento e ben cadenzato con l’uso di immagini fulminee e chiaroveggenti.
La verità della parola, indirizzata al detentore del Potere, ha la raffigurazione nella figura del disilluso che non riesce più a godere il vivere.
Nella denuncia, impostata su un controllatissimo discorso poetico, c’è lo strazio del poeta che non ha il tempo della solitudine per scrivere e dare ordine al caos, limitato dalla decadenza che avanza.
Quanto viene a emergere è perciò lo stato di spaesamento del soggetto rispetto al reale.
È l’ultimo verso a chiarire in modo epigrammatico che l’opaco grigiore del presente è un continuo depauperamento.
Così Pasolini introduce una sintassi dell’oscurità dentro una precisa consapevolezza: l’assenza di un ruolo del poeta, privato della tranquillità, necessaria allo scrivere. Anche la povertà riporta dentro la situazione di una precarietà crescente.
Se torna il sole, se discende la sera,
se la notte ha un sapore di notti future,
se un pomeriggio di pioggia sembra tornare
da tempi troppo amati e mai avuti del tutto,
io non sono più felice, né di goderne né di soffrirne:
non sento più, davanti a me, tutta la vita…Per essere poeti, bisogna avere molto tempo:
ore e ore di solitudine sono il solo modo
perché si formi qualcosa, che è forza, abbandono,
vizio, libertà, per dare stile al caos.Io tempo ormai ne ho poco: per colpa della morte
che viene avanti, al tramonto della gioventù.
Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano,
che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace.
Un certo isolamento è la condizione di vita indispensabile per essere creativi, altrimenti non si può essere se stessi.
È inevitabile che la vita assuma una certa lentezza. Perciò al poeta occorre il tempo della solitudine in cui ritrovarsi e riconoscersi in un atteggiamento capace di mettere la parola in relazione con il silenzio che la illumina, e viceversa.
Senza tale condizione egli perde ogni slancio mentre una forza oscura e restrittiva fa venir meno il requisito essenziale dell’intimo dialogo.
Siamo nell’angoscia del non essere più interpreti di sé stessi e della realtà per la limitazione del linguaggio poetico.
“Al Principe”: Pasolini e il rifiuto del consumismo
Da qui nasce il rifiuto del presente che è alienazione e consumismo per il recupero di una scrittura realistica che esprima fuori-potere, a dirla con Machiavelli, la verità effettuale delle cose.
In ultima analisi, per Pasolini la “vera poesia” è nella vita, nell’azione, nella lotta. Una forza di sottrazione al potere, pare di poter dire.
Per tutto questo la borghesia non ama la poesia e ne consegue cinismo e volgarità. Il modello di società borghese, oltre ad essere colpevole della povertà, è negativo per la creatività.
Non a caso il poeta nel componimento La ricerca di una casa, contenuto nella raccolta “Poesia in forma di rosa”, contrappone la fisionomia del borghesuccio egoista:
[…] ecco la faccia del borghesuccio scuro
di pelo e tutto bianco d’anima,
come pelle d’uovo, nè tenero nè duro…
Folle!, lui e i suoi padri, vani
arrivati del generone, servi
grassocci dei secchi avventurieri padani.
E chi siete, vorrei proprio vedervi,
progettisti di queste catapecchie
per l’Egoismo, per gente senza nervi,
che v’installa i suoi bimbi e le sue vecchie
come per una segreta consacrazione:
niente occhi, niente bocche, niente orecchie, […]
È chiaro che il componimento Al Principe va letto come partecipazione della coscienza al dramma di allora, della congiura contro la vita che stava anche segnando la decadenza della funzione sociale della scrittura.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Al Principe” di Pier Paolo Pasolini: la denuncia sulla perdita di ruolo del poeta
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