Alberto Cavanna è nato ad Albisola Superiore nel 1961. Ha lavorato come operaio, impiegato e dirigente in importanti cantieri navali. È autore dei romanzi Bacicio do Tin (Mursia, 2003, secondo classificato al premio Bancarella), Da bosco e da riviera (Rizzoli, 2008) e L’uomo che non contava i giorni (Mondadori, 2012). Ha pubblicato inoltre le raccolte di racconti Storie di navi, di viaggi e di relitti (Mursia, 2001) e A piccoli colpi di remo (Arte Navale, 2011, finalista al Premio Bancarella), oltre ai saggi Nelson e Noi (Mursia, 2007) e L’ultimo viaggio dell’imperatore. Napoleone tra Waterloo e Sant’Elena (Mondadori, 2014).
Da pochi giorni è in libreria Il dolore del mare (Nutrimenti 2015), suggestivo e potente romanzo dedicato “Alla piccola Roberta Giumelli, alla sua isola”, che ha come protagonista una grande donna, la salatrice di acciughe Elvira che vive in una piccola isola, Palmaria la più vasta dell’Arcipelago spezzino. È il 1936 e la guerra sta nuovamente per stravolgere i ritmi consueti e arcaici degli isolani che traggono la loro forza da quel mare dal colore così intenso e da quel fazzoletto di una terra avara e pietrosa.
“La guerra, come la luna con le doglie, lasciava loro riconoscerne in anticipo i segni premonitori in piccole cose appena percettibili, cose che gli uomini non avrebbero mai saputo riconoscere, anche se poi a morire erano loro mentre chi restava non riusciva a campare e si spegneva piano piano”.
- “Il mare guarisce tutti i mali degli uomini”. Per quale motivo ha posto come esergo del volume un verso dalla tragedia di Euripide Efigenia in Tauride?
Il dolore è un filo sottile che corre lungo tutta la narrazione… La sofferenza quotidiana di una vita “… che non era miseria ma mera sopravvivenza in assenza di problemi veri, come la salute, che se c’era tutta il che era di per sé una già mezza ricchezza…” la durezza dello strappare a mare e scoglio il sostentamento quotidiano, le guerre, le malattie, le morti. Ma era un’umanità che sapeva convivere con il dolore e ne faceva quasi un anticorpo. Dice Don Elmo, uno dei personaggi chiave: “Da sempre l’uomo che non conosce il dolore, non ne è mai stato toccato o lo ha dimenticato, finisce con essere sedotto dal male… Adamo, Eva nel paradiso terrestre il dolore non lo conoscevano e hanno preferito credere al serpente… Non abbiamo mai imparato nulla!”
Il mare che circonda l’isola, che è un testimone muto e paziente del dolore quotidiano, nella concezione greca era un tramite con la divinità, in quella cristiana, pensiamo all’Apocalisse di Giovanni, uno strumento… Il mare che assorbe il dolore però non lo dimentica, non è semplicemente come per Conrad l’icona angosciante di una tenebra immensa, ma chiude il cerchio del dolore, lo affranca dal tempo e lo rende eterno come profezia, come monito. La mancata cognizione del dolore genera la crisi della speranza. Il mare la restituisce a chi deve iniziare a ricostruire.
- Con quale aggettivo definirebbe Elvira, vedova di guerra di Radamés e madre di Ermes?
La ‘piccola Elvira del saladero’ è forse la definizione migliore. Pur essendo un personaggio gigantesco nell’infinita gratuità dell’amore che prova e dona, è un personaggio dalla semplicità disarmante dunque minuscola. Minuscola come l’isola dalla quale non si allontana mai, un’isola ancora agganciata a ritmi esistenziali medievali che viene scagliata in modo brutale in una modernità forzata sancita dalla forza militare, la forza propulsiva che dominava le economie e le politiche dell’epoca. Elvira riesce a sopravvivere in un mondo che non capisce proprio per la sua piccolezza, per la sua disarmante marginalità. Non è la piccola Elvira a soccombere ma è il mondo che la circonda ad autodistruggersi.
- Nel romanzo scrive che le donne dell’isola conoscevano bene la guerra, anche se non l’avevano mai vista da vicino né vi erano “state in mezzo”, anzi la sentivano arrivare prima degli altri. Questo avviene perché le donne sono il fulcro di una dura e atavica lotta quotidiana?
Il mondo che ho descritto ruotava intorno a poche cose che erano la casa, la terra, il lavoro, il tutto finalizzato alla famiglia. La custodia e la cura di casa e prole, dunque della famiglia, era una costante dell’universo femminile a essa votato mentre l’uomo, pur essendone il fulcro, era soggetto a oscillazioni… Pensiamo alle guerre: le donne del mio racconto ne vedono passare due di indipendenza, tre d’africa, una mondiale. E durante la guerra le fatiche delle donne raddoppiavano perché cadeva su di loro anche la parte fatta da figli e mariti: il lavoro nei campi, il mantenimento della famiglia… Con la prospettiva di restare vedove o riavere in casa uomini talmente cambiati dalla guerra “… che il cimitero li avrebbe chiamati prima, dunque non c’era speranza di posare quella croce se non al momento di piantargliela addosso.”
- Anche per Lei come per Elsa Morante, la Storia non solo è “uno scandalo che dura da diecimila anni” ma è fatta dalla gente comune, semplice e inerme?
La storia che non insegna nulla è quella delle date, dei numeri. Fino a poco tempo fa era la storia delle battaglie, delle guerre, dei trattati di pace che ridisegnavano periodicamente i confini. Oggi si fanno altri numeri: bilanci, conti pubblici, pil ma non è cambiato nulla… Quello che la storia deve insegnare, che deve necessariamente diventare memoria, è proprio l’impatto che ha il grande evento sull’umanità piccola, minuscola, marginale dunque trascurabile ai fini della manipolazione storica.
Il tramandare le sofferenze, le speranze le gioie e le tragedie di “… piccola isola di piccole vite e piccole felicità… Banali e semplici come la tramontana, forti come il canto le cicale, persistente come l’odore del pino e del timo…” da un senso alle rovine che oggi, sulla Palmaria, sono le vestigia di un mondo perduto. Se non c’è questo ci sarebbe solo Storia, quella con la S maiuscola… che ci racconterebbe di un tempo erroneo, malvagio ma non ci darebbe gli strumenti per evitarne uno futuro, magari peggiore.
- Quanto ha influito nella Sua formazione letteraria l’essere nato in una famiglia di artigiani dediti da generazioni alla lavorazione del legno a bordo di navi e imbarcazioni?
Tutto. Studiavo al classico e andavo a lavorare a bottega da mio padre dove il livello di alfabetizzazione più alto non superava la terza media.
Ma era gente che, vivendo da generazioni di un mestiere che crisi e guerre non avevano cancellato, avevano il dono della saggezza senza cultura.
Esattamente il contrario di quello che accade oggi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Alberto Cavanna racconta il suo ultimo romanzo “Il dolore del mare”
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