Brillante il racconto in cui Leonardo Sciascia si abbandona all’aneddoto narrativo confidato oralmente e nella forma migliore fissato sulla pagina.
Si intitola Una commedia siciliana e si legge nell’opera Il fuoco del mare (Adelphi, 2010), in cui sono raccolti racconti dispersi (1947-1975).
Per la presenza del caricaturale sulla psicologia dei personaggi, per le scene ilari e grottesche dal ritmo incessante evidente sembra l’accostamento alla novella pirandelliana. Viene da pensare a Il turno, racconto lungo o romanzo breve, esplicitamente ambientato a Girgenti, dove in una realtà accidiosa, mediocre, nonché piccolo-borghese, è il “caso” che per gioco altera situazioni organicamente programmate.
Anche nello scritto di Sciascia l’osservazione dell’animo umano è divertita; i personaggi il più delle volte compaiono come macchiette a livello di un semplice godimento, mentre a dirigere le azioni sono la sorpresa e il sentimento del contrario, l’umorismo e la teatralità.
L’epilogo è radicalmente innovativo per un commento colto che desta l’interesse del lettore all’approfondimento.
Riguardo alla narrazione l’indicazione del tempo può intuirsi dal contesto rappresentato e dalla data di stesura del testo (1969), legato a usi e costumi nel modo più splendidamente parodico e grottesco.
Il grosso paese in cui avvengono i fatti è denominato B.:
È insomma il luogo in cui i due modi di essere della Sicilia, Catania e Palermo, il commercio e il feudo, il teatro e la solitudine, si ritrovano: ma appunto su due piani diversi, senza incontrarsi.
Una commedia siciliana di Leonardo Sciascia: analisi del racconto
Siamo nel periodo in cui si amoreggiava a distanza, vale a dire, dal secondo dopoguerra agli anni Sessanta. Tra una sartina e un venditore ambulante nasce e si sviluppa un’intesa che, in un pomeriggio di primavera in campagna, si risolve nell’irreparabile. Di conseguenza, il fidanzamento non tarda ad arrivare
Coi parenti che fanno coda al passaggio dei due fidanzati, col fidanzato trattenuto a pranzo e a cena nelle giornate di festa, lo scambio dei doni, lo studio delle date e dei programmi del matrimonio imminente.
Ecco l’imprevisto tale da mettere in crisi ciò che era stato programmato: tre giorni prima delle nozze il fidanzato scompare dalla scena. Il narrato, allora, viene ad essere descritto all’insegna della finzione che si manifesta quando il padre della ragazza, “in fama di un esercizio alla violenza”, si reca nel paese del futuro genero per incontrarsi con i genitori di costui.
Il padre e la madre non sanno niente di lui, ma non si preoccupano perché altre volte si era assentato per qualche giorno per motivi di lavoro:
Fu stabilito, comunque, che appena tornato a casa il giovane si facesse vivo con la fidanzata: con una telefonata, se proprio non poteva correre a B., dove già la sua assenza cominciava a dare all’occhio della gente e a suscitare dicerie.
L’ironia della finzione cede infine alla verità che segna l’inizio della commedia vera e propria. I genitori di lui confessano la non volontà del figlio al matrimonio: gli era venuta una “paura violenta, una disperazione, una follia”, per cui non voleva più fare quel passo anche se amava la ragazza.
Di qui la sua fuga. Infine la decisione finale proposta dal padre della ragazza:
doveva morire, il giovane, per bocca dei suoi familiari stessi, padre, padre, parenti se ne aveva; che costoro venissero a B. ad annunciarne alla fidanzata la morte: solennemente, ufficialmente, in vesti di lutto; e che il giovane non si facesse più vedere, se ne andasse in continente o all’estero.
Così avviene nell’ora in cui il vicinato poteva rendersi conto di come effettivamente erano andate le cose. La sceneggiata si compie alla perfezione; dopo i giorni di lutto, la ragazza si fidanza con un giovane usciere del municipio. Si stava preparando il matrimonio, ma la comparsa improvvisa del giovane venditore ambulante, suscitando un’atmosfera di tragedia, fa sì che l’amore ritrovato fra i due abbia ha la meglio:
Fu imbastita per la propaganda una versione credibile della morte e resurrezione del giovane. La festa del matrimonio si tenne con una spesa e una allegria da lasciare nel quartiere ricordo.
Fin qui una storia che Sciascia non esita a definire banale, ma resa umorosa col suo modo di raccontare così incisivamente elegante da far rivivere le tonalità e le atmosfere del “cuntu” dell’oralità popolare, dove il demiurgo, in una una sorta di farsa, mette esattamente e sorprendentemente le cose a posto.
La maestria dello scrittore fa sì che il racconto diventi letteratura nella sua parte finale. Tra Borges, esplicitamente non nominato, e Pirandello, si situa l’epilogo. Senza i riferimenti culturali, non esisterebbe neppure la memoria dell’episodio, e tutto si dissolverebbe appunto nella banalità. Che cosa può fare lo scrittore, altro che servirsi dell’unico strumento di narrazione che rimane, cioè di riletture e di riscritture?
È abile Sciascia da ripercorrere il deposito dell’invenzione letteraria a sostegno di ciò che gli era stato raccontato. Così, egli ripensa in modo criptico all’opera L’Aleph di Borgesin cui si trova il racconto La ricerca di Averroè.
Ecco un accenno: il medico e filosofo arabo nella sua di Cordova sta scrivendo l’undicesimo capitolo dell’opera “Distruzione della distruzione” con l’intento di difendere la filosofia da certe accuse.
Non conoscendo il greco, un rovello l’assilla. Avendole letto il giorno prima nella Poetica di Aristotele, quale fosse il significato di due parole: “tragedia” e “commedia”.
Sciascia, affascinato da questa storia, l’ha così riassunta per far luce sul contesto in cui situare il suo racconto, mostrando una conoscenza puntuale ancor prima che altri ne avessero parlato:
Un medico arabo il cui nome, lunghissimo, si è contratto nel corso del tempo in quello di Averroè, passò gran parte della sua vita a commentare le opere di Aristotele. Nel dodicesimo secolo. Nel secolo nostro, uno scrittore argentino ha immaginato il travaglio di Averroè, la sua ricerca e la sua sconfitta, quando si trova costretto a spiegarsi e a spiegare le parole “tragedia” e “commedia”.
Nessuno in tutto l’Islam aveva la più piccola idea di quel che volessero dire. Nessuno sapeva che cosa fosse il teatro. E Averroè guarda i ragazzi che nel patio giuocano a rappresentare una scena di preghiera: ma non riconosce il teatro. Sente raccontare di una casa, in Cina, con file di gabbie o di balconi, una sull’altra, e con una terrazza dove alcune persone si dicevano prigioniere ma non c’era prigione, cavalcavano ma non si vedeva il cavallo, combattevano con spade di canna, morivano e si rialzavano: e ancora non riconosce il teatro”.
All’ignoranza linguistica di Averroè, che traduceva Aristotele utilizzando traduzioni arabe da traduzioni siriache del greco, Sciascia contrappone la situazione nativa di Pirandello, conoscitore del mondo girgentano da cui traeva spunti per le sue novelle.
Solo così l’enigma può dirsi risolto:
Pirandello ha appunto scoperto il teatro in un luogo (un tempo dell’Islam) dove non c’era idea del teatro ma dove puntualmente, continuamente, la vita prende la forma del teatro, è teatro. Come a B.: e la storia che ho tentato di raccontare non è che un piccolo esempio.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Una commedia siciliana” di Leonardo Sciascia: un racconto pirandelliano
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