Non poetessa ma poeta, al maschile. Anna Achmatova, senza saperlo, già nel secolo scorso anticipava una moda molto contemporanea facendosi portavoce di una parità linguistica oggi eletta a baluardo di pensiero.
Quella definizione caustica di “poeta” faceva a pugni con la sua persona squisitamente femminile: aveva lunghe gambe affusolate, come uno stambecco, braccia sottili, lucenti occhi grigio-verdi e un naso aquilino che la rendeva irresistibile nei ritratti. Le gravitava attorno un fascino indefinibile, un’impalpabile aura di mistero che fece dire al Premio Nobel Iosif Brodskij:
“Anna Achmàtova è uno di quei poeti che semplicemente avvengono (...) Lei non somigliò mai a nessuno.”
Anna Achmatova, la nascita di un “poeta”
Anna Achmatova non era il suo vero nome, era il nome che si era creata quando il padre Andrej le proibì di pubblicare le sue poesie con il cognome di famiglia. Si chiamava Anna Andreevna Gorenko ed era di discendenza aristocratica, ma non esitò a rinascere nuova a sé stessa per guadagnarsi l’agognato appellativo di “poeta”. Scelse quindi il cognome tataro della sua bisnonna materna discendente di Gengis Khan, “Achmatova”, che ben si accordava al suo nome palindromo con la ripetizione ritmata della prima lettera dell’alfabeto in grado di collocarla subito “in cima a tutti poeti russi”, come osservò Brodskij.
E “poeta” lo diventò davvero, adorata e ammirata in tutta la Russia alla stregua di una celebrità. Boris Pasternak, uno dei suoi amici più cari, ricorda che per acquistare un suo nuovo libro di versi si formavano code ai due lati della strada e la gente era disposta ad attendere in fila anche per delle ore. Quando la sua poesia fu bandita, perché ritenuta contraria alla propaganda del regime, la gente recitava le sue liriche a memoria per non dimenticarle, oppure le trascriveva su dei foglietti volanti. Era diventata suo malgrado un simbolo di resistenza, ma anche la voce di una collettività che non poteva né sapeva esprimersi, il grido non soffocato di un tempo sanguinoso di massacri e repressione.
Anna Achmatova: la vita
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Le sue prime poesie erano liriche sentimentali, a undici anni aveva già scritto la prima. Era un talento precoce e illuminato. Leggenda narra che avesse imparato a leggere sui libri di Tolstoj. Da bambina selvaggia, che camminava scalza e vagava senza cappello, si trasformò in un’adolescente inquieta.
Giovanissima conobbe il poeta Nicolaj Gumilëv che la assediò facendole una corte serrata e, dopo vari rifiuti, divenne suo marito. Anna era bella, alta, flessuosa, una figura particolare, che non passava inosservata. Gumilëv tuttavia dopo il matrimonio si stancò presto di lei e se ne andò da solo in Africa. Lei invece partì alla volta di Parigi, dove conobbe il pittore Amedeo Modigliani: formarono una strana coppia, legata da segrete affinità amicali, vagavano di notte per i giardini del Lussemburgo, leggevano ad alta voce le poesie di Verlaine e Baudelaire, si regalavano rose.
Tornata a Pietroburgo - all’epoca ancora Leningrado - Anna Achmatova iniziò a farsi un nome nell’ambiente culturale dell’epoca: scriveva su riviste letterarie, presenziava circoli di poesia. Nel 1912 pubblicò la sua prima raccolta La sera, che ebbe un successo travolgente andando esaurita in poche settimane. Le donne in particolare impazzivano per le sue poesie d’amore, ne imitavano lo stile, lei stessa anni dopo ironicamente dichiarò di aver “insegnato alle donne a parlare”. Sempre nel 1912 nacque il suo unico figlio, Lev, reso tristemente famoso dagli struggenti componimenti del poema Requiem.
Poi arrivò la Grande Guerra e cambiò tutto, scombinò i piani prestabiliti, sovvertì i destini e fece sfumare il futuro immaginato. Anche la poesia di Anna Achmatova fu rivoluzionata dalla guerra. A differenza di altri che se ne andarono dalla Russia per aver salva la pelle, lei decise di restare in patria, e la sua divenne una voce di Resistenza, pagando quella scelta con la pena dell’isolamento e del silenzio.
Anna Achmatova e la censura
Nel 1918 Achmatova divorziò dal suo primo marito e si risposò con il poeta Šilejko, ma anche quel matrimonio fallì e in seguito convolò a nozze con lo storico dell’arte Nikolaj Punin. Nel frattempo il regime soffocava la sua voce: le sue poesie furono censurate in patria per più di quarant’anni, dal 1921 al 1966, ma il popolo russo continuava a ricordarle, a recitarle, a snocciolarle come un rosario facendone la base letteraria del proprio alfabeto.
Durante gli anni delle purghe staliniane il figlio Lev fu imprigionato e condannato ai lavori forzati. Anna non poteva fare nulla per salvarlo, per proteggerlo, si dedicò quindi alla stesura del lungo poema Requiem (1935- 1940) sperando di tendergli una mano almeno attraverso la poesia. Il ciclo di Requiem segna un punto di svolta nella lirica di Achmatova: per la prima volta viene data voce ai soprusi subiti da un popolo sofferente, allo sconforto provato dai russi in quegli anni tetri di angoscia e repressione. La poesia di Anna Achmatova, che era già considerata nazionale, ora assume un valore aggiunto, diventa espressione di un sentimento collettivo.
Sarebbe stata sempre la poesia a salvare la vita a Lev, la cui unica colpa era quella di essere figlio di Nicolaj Gumilëv, un controrivoluzionario. Per riavere indietro il suo unico figlio Anna Achmatova si piegò a scrivere quindici poesie dedicate a Stalin; fu il gesto estremo d’amore materno, narrato anche in Requiem.
Gli ultimi anni di Anna Achmatova
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Dopo la morte di Stalin, Anna Achmatova fu riabilitata dall’Unione degli Scrittori Sovietici. Nel 1955 riuscì a pubblicare - anche se solo in modo parziale - Il Poema senza eroe, cui aveva lavorato per più di vent’anni, un componimento dedicato al ricordo del grande passato russo. Le sue liriche erano influenzate dallo stile di Dante Alighieri, di cui Achmatova era una grande appassionata e studiosa. Tradusse in lingua russa anche i versi di Giacomo Leopardi e con le traduzioni si guadagnò da vivere in quegli anni difficili, quando le sue poesie furono censurate dal regime sovietico. Finché fu in vita Anna Achmatova non vide tutte le sue opere pubblicate in lingua russa, la sua glorificazione fu tardiva e oggetto di una progressiva riabilitazione postuma.
Soltanto un anno prima della sua morte fu edito La corsa del tempo, un compendio della sua migliore produzione poetica. Il 5 marzo 1966 morì a Domodedovo, un sobborgo di Mosca, stroncata dall’ennesimo attacco di cuore, proprio lei che aveva detto “io posso sopportare tutto”.
Rimane il suo poetico addio formulato in versi, intitolato emblematicamente Ultimo brindisi (1934):
Bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata (...)
ad un mondo crudele e rozzo,
a un Dio che non ci ha salvato.
In questa lirica Achmatova sembra riscattarsi con un brindisi amaro, avvelenato da una condanna all’infelicità, dalla sua vita sciagurata, da tutti i colpevoli impuniti della sua storia. L’accusa finale era rivolta proprio al “salvatore” per eccellenza, Dio, che sembra aver abbandonato il mondo lasciandolo piombare nelle tenebre.
Dopo la sua morte fu celebrata con un solenne funerale di Stato e la sua bara fu scortata da un corteo di milioni di persone.
Un ultimo omaggio tardivo, riservato a colei che la poetessa a lei contemporanea Marina Cvetaeva chiamava: Anna di tutte le Russie, tributandole gli onori dovuti a una regina.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Anna Achmatova, vita e opere della “regina” di tutte le Russie
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Conosco questa grande poetessa russa.E’ ossigeno per il mio cuore.