Il tre ottobre del 2021 moriva a Roma Antonio Debenedetti.
Scrittore, poeta, giornalista e critico letterario, era figlio di Giacomo Debenedetti. Per farsi un’idea del suo lavoro basterà scorrere le pagine di Racconti naturali e straordinari, edito da Bompiani Editore, e Quel giorno quell’anno, edito da Solferino Editore.
Abbandonato lo sperimentalismo degli esordi, Debenedetti ha consacrato la propria scrittura e il proprio talento al racconto, tanto da
«trovarsi a rappresentare, con Celati, la voce più giovane del secolo […] ormai giudicata matura e autorevole al punto da poter figurare con quella di autori trattati come classici contemporanei: Landolfi, Soldati, Bassani, Cassola, Moravia»
come scrive Paolo Mauri.
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Racconti naturali e straordinari, volume di Bompiani curato da Cesare De Michelis, ha ben quarantatré storie brevi, quelle che in quest’antologia sono state selezionate dai sette libri di Debenedetti, pubblicati tra il 1981 e il 2011.
Il racconto è il luogo della sperimentazione, il luogo del sottile, il luogo delle ombre silenziose che in un romanzo non sempre riescono a trovare uno spazio marginale. Il racconto può e deve raccontare, allora, ciò che è marginale e che finisce per essere ai lati di una storia più importante, che sa farsi trama di un romanzo.
Il racconto, e questo Debenedetti sembra averlo compreso bene, ha la possibilità di narrare e dare spazio a un sussulto, a un’ombra che si posa su di un volto, a un’impressione che si ha in metropolitana quando si guarda uno sconosciuto. E il racconto, allora, è lo spazio letterario in cui la curiosità di antropologo può catalogare i mostri che la Storia ha generato.
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Si diceva che il racconto è un luogo di sperimentazione, a ben guardare la raccolta Ancora un bacio è sì uno spazio, in cui si accumulano racconti come “frammenti di storie esplose o perdute”, “dominati da un acuto senso di nostalgia e da un’avvolgente proiezione autobiografica”, ma è anche un insieme di racconti che costruiscono e costituiscono un romanzo.
Le storie, presenti in questa raccolta, sono collegate le une alle altre per mezzo di intermittenze, larve di luce, canali sotterranei che a malapena si percepiscono. È attraverso lo sguardo muto di un bambino, infatti, che i racconti finiscono di essere tali per diventare parte di un romanzo. Il protagonista del primo racconto, intitolato Ivan, non solo osserva dall’esterno un mondo che non gli appartiene più – quello di un’aristocrazia che sta morendo e di cui si osservano i passi falsi, le sventure nel nuovo secolo – ma anche il sorgere di un nuovo modo di pensare in cui si sentirà, una volta diventato adulto e fagocitato in quel mondo, fuori luogo tanto da togliersi la vita.
Difficile dire se sia una cosa voluta dall’autore o sia un ‘romanzo smembrato’, un ‘romanzo relitto’ che non ha preso la forma, sta di fatto che lo sguardo del bambino del primo racconto ricorda il romanzo fatto di racconti di Gregor von Rezzori Un ermellino a Cernopol. Stesso il desiderio di un mondo che non esiste più, stessa l’amarezza che i personaggi mostrano nei confronti di un presente che li rende indifesi, incapaci di dimenticare un tempo in cui il mondo era ai loro piedi.
Ritroviamo questo bisogno di sperimentare anche nella raccolta In due, dove lo scrittore in più racconti sembra accostare e fondere la forma del narrativa con quella di un pezzo puramente teatrale. Si percepisce ad esempio leggendo La strategia del silenzio, dove la prima o la seconda cartella del racconto sono un preambolo raccontato al presente la narrazione scompare e i personaggi sono solo voci, come nella scrittura di Hemingway o di Alain Robbe-Grillet. L’uso del presente ha forse anche una valenza husserliana rispetto all’io profondo dei personaggi, che non cambia nel tempo. Alcuni testi, come Talk show o Cara signora Wilma, o Call Center, sembrano crescere e aderire alla controcultura dei reality e della Posta del cuore.
I racconti diventano un luogo in cui il cinema si fonde con la trama, Don Gegè, il protagonista di Totò e il colonnello (un peccato inconfessabile) della raccolta In due, non solo racconta un oscuro segreto al suo amato attore cinematografico, durante una proiezione, ma finisce per morire dopo aver preso coscienza, cosa questa che ricorda quello che accade a come accade a Bergotte che muore contemplando un quadro di Vermeer nella Richerche di Proust. Molti di queste storie e di questi personaggi sembrano avere qualcosa a che fare con i personaggi e gli attori del Bertolucci de Il partner o de Il conformista, sembrano avere la faccia di Pierre Clementì o Jean Louis Trintignant. Altri invece sembrano usciti dal libro di Tatti Sanguineti Il cervello di Alberto Sordi.
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Amarsi male, forse la migliore raccolta dello scrittore, è la controparte de I sillabari di Parise. Lo scrittore veneto è riuscito a raggiungere non solo una scrittura di grado zero, ma ha anche raccontato i sentimenti, sentimenti buoni, e la bellezza del mondo nella sua elementarità (I sillabari hanno a che fare con l’infanzia e un insieme di letteratura e conoscenza, quella che nella scuola viene proposta al bambino alle scuole primarie).
Antonio Debenedetti racconta invece la complessità, la complessità dei suoi sentimenti, la ferocia degli uomini contro se stessi e gli altri.
«I sentimenti dei racconti di Debenedetti non sono buoni sentimenti; la nota dominante è l’assenza di gioia, con un’aggiunta di ferocia frequente in personaggi che sono prelievi chirurgici dalla cosiddetta realtà, nella quale un dettaglio sgradevole è la chiave di accesso o, più spesso, di rovina. Tali dettagli sono fissati e poi infilzati, lasciati a mostrare la dura sostanza dei rapporti interpersonali che richiamano a contesti riconoscibili da pochi segni, per accenni antropologici (ovvero come evidenze immediate di questioni di lunga durata nel carattere degli italiani)».
Per questo motivo l’uomo malato di Aids, del primo racconto di Amarsi male, che si intitola Più veloce della paura, vuole infettare tutto il resto dell’umanità, la donna ebrea, che riesce quasi a non essere toccata dalla Storia, finisce fidarsi del suo vicino antisemita, seduto sulla panchina.
I personaggi delle storie di Antonio Debenedetti appartengono all’
«ultima [generazione] erede della Roma nera, papalina, velenosa [figlia] dell’Ovra, della piccola borghesia del ventennio».
Come i personaggi di Dostojevski, sono perduti perché hanno perso tutto. Come il personaggio di Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami sanno il male e sono in grado di farlo, senza alcuna remora. Ma, nel loro modo di essere, si dimostrano esempi
«tipici di un mondo del Novecento, nella grande letteratura che l’autore ha frequentato fin dalla sua infanzia, […] negli autori che ha letto e fatto suoi (Moravia, Pirandello, Landolfi, Soldati), l’attenzione al presente è acuta e precisa, sempre pronta a cogliere quel germe di dissoluzione che ogni presente contiene».
Sono dandy, uomini sull’orlo della nevrosi, sconfitti, ma anche zitelle o l’incompresa vedova addolorata che finisce per essere violentata sulla strada dedicata al marito. Semplicemente “vittime di piccole offese insidiose”, dunque, uomini che “frequentano la realtà con cautela”, “uccisi dall’amore o salvati dal compromesso”, che “nel tradire sentono di dare soddisfazione a un meschino desiderio di rivincita, a un oscuro desiderio di umiliare”, uomini a cui sembra che “occorra far tesoro [anche] delle briciole”. Ognuno di loro dice “ho il mio dolore, i pazzi non soffrono più di noi ma senza dolore”, come fa un personaggio di E nessuno si accorse che mancava una stella.
Debenedetti […] stringe il campo sulle singole vite, sui sentimenti, sui pieni e sui vuoti, sui tormenti, sugli amori slabbrati dei suoi personaggi, messi all’angolo a volte dalla storia, a volte dalle loro debolezze, dalle meschinità altrui o da un’incolpevole, fatale solitudine
come sostiene Cristina Taglienti.
Lo sguardo da giornalista di Debenedetti lo rende diverso e distante dalla scrittrice canadese, Premio Nobel, Alice Munro: la scrittrice riesce a far amare i suoi personaggi, renderli esempi di umanità. Debenedetti sa rendere il dettaglio, l’eco, l’epifania che oggi interessa e non sembra aver futuro o un ricordo domani. Il tempo
[nei racconti di Debenedetti] scorre pigramente, senza che si senta il ticchettio […] si può sentire il suono sottilissimo della sabbia […] poi tutto converge in un punto, il tempo pulsa s’identifica; qualcuno spara […] mettendo a nudo il destino di un singolo
. Amaramente.
Quel giorno quell'anno
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Credits foto: Massimiliano Malerba, pubblico dominio, Wikimedia
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Antonio Debenedetti: le raccolte di racconti da leggere e riscoprire
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