Le stagioni narrate da Vincenzo Cardarelli hanno un sapore crepuscolare e malinconico: l’estate è feroce ed eterna, l’autunno riflette l’amara pena del commiato, l’inverno è pericoloso, gelido e indiavolato; ma la primavera?
In una toccante poesia dedicata al mese di Aprile, Cardarelli mescola il linguaggio lirico alla prosa riflettendo i moti esterni e fugaci del cielo nella profondità dell’animo umano.
C’è una stagione temporale e una stagione umana: la poesia di Vincenzo Cardarelli dà voce alla seconda. Aprile riflette la pena, l’inquietudine e il tormento interiore del poeta che sembra vivere in un tempo sospeso, irrisolto, malinconico a causa di una pena d’amore.
La primavera diventa dunque una “visione astratta” capace di scavare nel fondo dei sentimenti e delle cose. La parola si fa incarnazione di un’assenza, di una mancanza, di un dolore latente che non ha voce per esprimersi.
Scopriamo testo, analisi e commento della poesia Aprile di Vincenzo Cardarelli.
Aprile di Vincenzo Cardarelli: testo
Quante parole stanche
mi vengono alla mente
in questo giorno piovoso d’aprile
che l’aria è come nube che si spappola
o fior che si disfiora.
Dentro un velo di pioggia
tutto è vestito a nuovo.
L’umida e cara terra
mi punge e mi discioglie.
Se gli occhi tuoi son paludosi e neri
come l’inferno
il mio dolore è fresco
come un ruscello.
Aprile di Vincenzo Cardarelli: analisi e commento
Aprile mescola insieme “memoria e desiderio” e desta radici sopite come “pioggia di primavera”, scriveva T.S. Eliot ne La terra desolata. Questi sentimenti ritornano drammaticamente nella poesia simbolista di Vincenzo Cardarelli in cui le piogge d’aprile si fanno riflesso dei moti interiori del poeta. La primavera in questi versi non viene narrata nel suo trionfo e neppure nel suo tripudio di tinte vivaci, ma nel suo sottile languore, nella fatica della nascita che riflette lo sforzo di una gestante.
L’aria di aprile è vibrante, sembra pulsare fastidiosa come un mal di testa: è una nube in disfacimento, un fiore che perde i suoi petali. Ogni cosa riflette il cambiamento in atto, che comporta per diretta conseguenza anche una perdita, un momentaneo smarrimento.
Ogni novità, ogni nuova nascita è originata da una perdita, sembra dirci il poeta ed è quindi riflesso malinconico di qualcosa che non c’è più, che si è perduto come dentro “un velo di pioggia”. Il rimando all’acqua, al lacrimare della pioggia suggerisce un legame con l’area semantica della tristezza e del pianto.
Dentro un velo di pioggia
tutto è vestito a nuovo.
L’animo sembra essere punto nel vivo dalla rinnovata fertilità della terra che “lo discioglie”. Tutto è languore, malinconia, abbandono: la terra che si apre al nuovo, che si dischiude alla stagione nascente è umida e palpitante come il cuore del poeta.
Vincenzo Cardarelli non parla del moto delle stagioni, ma di sé stesso, di come la primavera si agiti nel suo intimo risvegliando in lui antiche passioni, desideri, rimpianti.
Sono frequenti i termini che rimandano al campo semantico dell’acqua: “pioggia, ruscello, nube” che riflettono la cristallina limpidezza della stagione nuova, ma anche la malinconia e il pianto. Ogni termine è un simbolo nella poesia di Cardarelli: il dolore che trapela in ogni riga infine viene infine descritto “fresco come un ruscello”, come se il mese di aprile con la sua aria pura alleggerisse anche la pena di un amore non ricambiato.
Nel finale inatteso Cardarelli si discosta dall’asettica descrizione di ambiente per mostrarci uno scenario più umano e personale: appaiono due occhi neri, impenetrabili come l’inferno. Allora capiamo la pena riflessa in questo giorno piovoso di aprile: è una tragedia dell’incomunicabilità, l’incapacità di essere riconosciuto dall’altro (forse l’essere amato?), l’angoscia di specchiarsi in due occhi che di fatto ci guardano ma senza vederci davvero. Gli ultimi versi danno nuovo significato all’intero componimento rivelando l’origine dell’angoscia che Cardarelli riflette nei moti pigri e languidi del cielo, nel lento disfacimento delle nubi.
Allora comprendiamo l’incipit desolato della lirica: le parole sono “stanche” perché hanno perduto la loro funzione comunicativa, non assolvono al loro scopo principale, al loro obiettivo. La poesia ci rivela il suo senso effettivo solamente nel finale, che sembra chiudere un circolo. Di fronte agli occhi impenetrabili, che si fanno metafora di un silenzio inscalfibile, il tormento del poeta annega diventando sentimento panico della natura, simbiosi ineludibile dell’elemento naturale con quello umano.
Tutto scorre: panta rei, sembra dire Cardarelli con la riuscita metafora finale, persino il dolore che viene associato a un sentire sinestetico: è “fresco”, dunque non pungente, bruciante come una ferita ancora aperta, ma lenitivo, calmante, come un male effimero destinato col tempo a dissolversi.
Chi è Vincenzo Cardarelli
Più noto per la sua attività di poeta, Cardarelli fu anche giornalista e scrittore. Nel 1948 vinse la seconda edizione del Premio Strega con il romanzo Villa Tarantola, battendo il favorito Cesare Pavese. Le sue opere, in poesia e in prosa, riflettono le tendenze della corrente simbolista francese (Cardarelli amava Verlaine e Rimbaud) e il pessimismo del Leopardi prosatore delle Operette morali che nella scrittura riflette il dramma incomprensibile dell’esistenza. Tutte queste influenze convergono nella sua poetica simbolista e crepuscolare ricca di immagini istantanee che diventano specchio di un tormentato sentire interiore.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Aprile: la poesia malinconica di Vincenzo Cardarelli
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