Bandiere rosse, aquile nere
- Autore: Guido Cervo
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Piemme
- Anno di pubblicazione: 2016
“Bandiere rosse, aquile nere” (Piemme, 2016) è il nuovo romanzo dello scrittore appassionato di storia e autore di romanzi di successo, Guido Cervo che vive e lavora a Bergamo, dove insegna Diritto ed Economia politica.
Le bandiere rosse che donne e uomini come Stefano Zanderighi, “Esteban” hanno sventolato cercando la vittoria combattendo in Spagna nella milizia repubblicana contro i franchisti durante tre anni di guerra civile. Le aquile nere simbolo ripreso dal fascismo, che si rifaceva alla civiltà romana come manifestazione di grandezza e di ricordo delle vittorie di Roma antica, che per il diciassettenne Eugenio rappresentano la futura vittoria, giacché
“quando i tedeschi prenderanno Stalingrado, il bolscevismo cadrà e la guerra finirà”.
Il titolo del romanzo-fiume di Guido Cervo rende bene quel clima che seguì il giorno 8 settembre 1943 quando nel nostro Paese, con la monarchia sabauda in fuga e l’esercito nazista padrone del territorio oltre la Linea Gotica, s’impose una scelta radicale, che sancì l’inizio di una guerra civile tra gli italiani messisi gli uni contro gli altri, fratello contro fratello, figlio contro il padre. Esattamente in quegli ultimi mesi del 1943, vi furono coloro che rimasero fedeli al Regime fascista per scelta, per paura o per volontà di non scegliere, e coloro che dopo tutto il silenzio imposto dalla dittatura, fecero sentire la loro voce attraverso le armi e si unirono ai gruppi partigiani, scegliendo il sentiero che sale su per la montagna. Una scelta radicale che scatenò una serie di drammi, lutti, odi insanabili, vendette estreme com’è reso evidente nelle pagine del romanzo, che racconta la storia di alcuni giovani con i loro destini incrociati. Al termine della guerra civile spagnola Stefano arrivava in Francia come un reietto, un vinto, con un soprabito vecchio e stramato, un berretto fradicio e una coperta a tracolla. Il futuro era incerto ma di una cosa era sicuro: la sua lotta contro il fascismo non era finita.
In Africa Settentrionale, alla vigilia della storica battaglia di El-Alamein (23 ottobre-3 novembre 1942) avvenuta nel corso della II Guerra Mondiale tra l’Impero britannico e le forze italo-tedesche, l’ufficiale Alberto Martinelli scriveva a Marta, sua ricca, avvenente e ambiziosa fidanzata. A ventitré anni, Alberto aveva alle spalle già abbastanza Africa da potersi considerare un veterano. Quale figlio di un noto esponente del Partito Fascista, al termine del corso ufficiali si era sentito in obbligo di chiedere l’assegnazione a un reparto di prima linea. A tale scelta aveva concorso un’altra motivazione: ripulire il blasone della famiglia Martinelli dalla macchia lasciatavi dalla fuga e dal tradimento della sorella adottiva, Anita, la quale nel 1933, quando lui aveva quindici anni e lei ventuno, era scappata con i comunisti. Un trauma quello per tutta la famiglia. Martinelli sapeva di trovarsi a un passo da una battaglia che si annunciava durissima, decisiva e memorabile, considerato che la sproporzione tra le forze contrapposte era sconfortante. I bersaglieri erano fanti speciali addestrati per non darla vinta a nessuno, e lui considerava il combattere tra uomini di quella tempra come il più alto onore che avrebbe potuto toccargli. Ciò che li teneva uniti e rinsaldava il loro coraggio non era la fede fascista, che seduceva pochi, e nemmeno la fedeltà al re, che davano per scontata, bensì lo spirito di corpo, che ispirava la ferma volontà di non cedere al nemico. In quello stesso momento in una Milano dove i disagi che la popolazione doveva affrontare aumentavano ogni giorno,
“prima di tutto, le ristrettezze alimentari imposte dal razionamento”
lo svogliato studente Eugenio
“sembrava non rendersi pienamente conto dei sacrifici e delle rinunce che la guerra imponeva ai più”.
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