Bertrand Russell. Ricordo di un’amicizia
- Autore: Rupert Crawshay-Williams
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Castelvecchi
- Anno di pubblicazione: 2014
Recentemente ho compulsato Russell remembered di Rupert Crawshay-Williams, comprato per pochi spiccioli su una bancarella. In Italia il suddetto libro, magistralmente tradotto da Bruno Oddera, fu pubblicato nel 1970 da Longanesi col titolo Il mio amico Bertrand; nel 2014 Castelvecchi lo ha meritoriamente rimesso in circolazione attribuendogli questa volta un nuovo titolo: Bertrand Russell. Ricordo di un’amicizia.
Il libro di Crawshay-Williams non è un saggio filosofico, bensì un memoriale - per la precisione, trattasi di un ritratto agile, brillante, che non ha nulla in comune con certe odierne biografie, ponderose e fitte di note a piè di pagina, spesso tanto accurate quanto soporifere. Nondimeno l’autore, nel tentativo di sceverare la cocente delusione provata da Bertrand Russell all’indomani della pubblicazione di Human Knowledge: Its Scope and Limits (1947), opera trascurata, più che vilipesa, dalla critica, passa in rassegna un buon numero di questioni prettamente filosofiche come il senso comune, il positivismo logico, la natura dell’infinito, il problema dell’induzione, il solipsismo e i limiti della conoscenza umana.
Come libro di memorie, bisogna riconoscere che l’opera di Crawshay-Williams è perfettamente compiuta e si configura come una testimonianza preziosa su venticinque dei novantasette anni vissuti da Russell; per l’esattezza, il libro copre un arco temporale che va dal 1945, anno in cui i due uomini si conobbero, al 1970, allorché Russell, quasi centenario e ormai quasi completamente sordo – conversare con lui divenne, negli ultimi anni, una vera e propria impresa – si spense per sempre circonfuso di gloria.
Con garbo e ironia, l’autore consegna al lettore un’immagine non convenzionale, e dunque tanto più suggestiva, del celebre filosofo britannico, il quale si rivela nelle pagine di questo libro uomo dalla personalità composita e poliedrica: orgoglioso, temerario, testardo (ma sempre disposto a riconoscere i propri errori), ambizioso, antidogmatico, elitario, bisognoso di rassicurazioni e sensibile alle adulazioni (e ciò nonostante i notevoli traguardi conseguiti lungo il proprio itinerario intellettuale), spiritoso (Russell non aveva alcunché dell’intellettuale arido e impettito, proclive a un pessimismo di maniera; amava ridere e lo faceva spesso; in Party sotto le bombe, libro in cui è condensato il suo soggiorno inglese, Elias Canetti allude più volte alla «risata belante di un caprone», come lui la chiama, dell’esimio filosofo), umorale (talora, quando l’emotività obnubilava il suo rigore logico, Russell poteva coniare formule discutibili come «tutti i russi sono barbari orientali» o «non si riuscirà mai a far funzionare in Africa un governo democratico»), cordiale e affettuoso con i propri cari ed amici, imbranato nelle faccende domestiche (come i buoni intellettuali di una volta), pacifista convinto (e come tale sinceramente angustiato per le sorti del pianeta; nel dopoguerra, il timore che un improvvido statista potesse inopinatamente sganciare la bomba all’idrogeno si tramutò per Russell, come per Moravia dopo di lui, in una vera e propria ossessione).
Tra i vari attributi della personalità di Russell elencati nel paragrafo precedente, mi avvedo solo ora di averne omesso uno e non si tratta del meno rilevante. Mi riferisco al coraggio. Ardimentoso Russell lo fu sia sul piano esistenziale, pagando in prima persona per gli effetti delle sue scelte eterodosse, che sul versante intellettuale, decidendo di non accodarsi alle effimere mode del momento (e ciò può spiegare, almeno in parte, la silenziosa ostilità con la quale negli ambienti accademici furono accolti alcuni dei suoi scritti come, ad esempio, il già citato Human Knowledge, opera cui Russell teneva in sommo grado).
Non credo sia poco. Tranne rari casi, gli intellettuali sono perlopiù una genia di attendisti, inclini al compromesso, «machiavellici» nel senso deteriore del termine, provvisti soprattutto di uno spiccato spirito di autoconservazione. Russell non fu mai né vile né guardingo. Ecco come lo descrive un suo vecchio amico, l’attore Miles Malleson (il giudizio è tratto da un appunto diaristico di Crawshay-Williams datato 19 maggio 1967):
«lo considero un uomo grandissimo. E ha scritto opere meravigliose. Ma si è sbagliato innumerevoli volte. Una sola cosa posso dire a sua difesa, che non ha mai esitato a esprimere il proprio pensiero, senza domandarsi se questo lo avrebbe fatto finire in prigione. Mentre invece, tutti gli altri grandi uomini che ho avuto la fortuna di conoscere durante la mia carriera sulla scena e scrivendo commedie, uomini come Shaw e Wells, si sono sempre domandati se stessero dicendo cose gradite al pubblico».
Prolifico scrittore (e, aggiungo io, scrittore di una limpidezza e di una concisione esemplari, in particolare nella saggistica e negli scritti di alta divulgazione), Russell sapeva bene che, eccettuato il ristretto dominio della logica matematica, il dubbio permea quasi integralmente la vita dell’uomo. Laddove le proposizioni sintetiche a priori, proprie della matematica, sono incontestabilmente vere, ossia sono vere indipendentemente dall’esperienza, giacché non hanno inizio né fine (non c’è un momento della storia in cui una proposizione matematica, semplice o complessa che sia, inizi ad essere vera o finisca di esserlo), le cosiddette «questioni di valore» – i sempiterni problemi di carattere etico, estetico, religioso, sociale, giuridico, ecc., con i quali ogni uomo è chiamato a confrontarsi – non possono essere risolte in termini apodittici, appunto perché inseparabili dall’irriducibile esperienza di ciascuno. A dispetto di qualsiasi indagine, siffatte questioni restano aperte e controverse.
La vita esige che si agisca, che si prendano decisioni, in un senso o in un altro (la perfetta quiete, Vico docet, è una prerogativa divina); orbene, per effettuare una scelta, oppure per difendere le proprie convinzioni, o ancora per persuadere l’interlocutore di turno, la logica non basta; è necessario fare appello ad alcuni espedienti retorici ed è impossibile bandire completamente le passioni dai propri sillogismi. Al riguardo, in un saggio su Voltaire, Russell ha osservato con la sua proverbiale arguzia che
«nessuno sostiene con fervore che sette per otto fa cinquantasei perché può essere dimostrato che è così. Il fervore è necessario soltanto quando si loda un’opinione che è dubbia o dimostrabilmente falsa».
Nella miriade di contributi che compongono la vasta, multiforme bibliografia dei suoi scritti, Russell seppe difendere fino all’ultimo le proprie idee, sovente eterodosse e discutibili, sorretto da una buona dose di pathos e da un non comune talento affabulatorio.
La struttura colloquiale e aneddotica costituisce indubbiamente uno dei tratti più pregevoli di questo libro, doviziosamente costruito grazie al supporto di appunti diaristici e di frammenti epistolari. E tra i molti aneddoti raccolti nel volume desidero citarne almeno tre.
Il primo è il seguente. Una sera, racconta Crawshay-Williams, un contadino si presentò a casa di Russell e rivolse all’eminente filosofo, autore, tra l’altro, di un aureo saggio intitolato The ABC of Relativity [1925], questa bizzarra richiesta:
«Sono venuto, Lord Russell, a chiederle di spiegarmi la teoria della relatività con una sola frase».
È un vero peccato che l’autore non soddisfi la curiosità del lettore ed eviti, per imperscrutabili ragioni, di confidargli quale sia stata la reazione di Russell.
Il secondo aneddoto concerne invece il famigerato disinteresse nutrito dal filosofo nei confronti dei beni materiali e coinvolge la moglie di Rupert, Elizabeth, la tata dei Russell, Lena, e un paio di pantaloni. Ecco cosa scrive Crawshay-Williams al riguardo:
«Una volta Elizabeth stava disfacendo le valigie con Lena, la loro simpatica cameriera irlandese, che le dava una mano. Elizabeth aveva sul braccio un paio dei miei calzoni e non riusciva a trovare un posto in cui metterli. “Lord Russell dove li mette i calzoni?” aveva domandato mia moglie. “Li indossa”, era stata la risposta di Lena».
Il terzo aneddoto chiama in causa la celebre Metalogical Society, l’elitario circolo culturale fondato nel 1949 da Alfred Jules Ayer come luogo d’incontro per filosofi e scienziati. L’autore osserva che una delle cause del suo scioglimento fu l’incapacità di stabilire una vera e propria comunicazione tra filosofi e scienziati. Da un lato, i problemi che interessavano i filosofi spesso lasciavano completamente indifferenti gli scienziati, e viceversa; dall’altro, gli scienziati tendevano a non riconoscere come propri gli scopi e i metodi d’indagine attribuiti loro dai filosofi. Trovo che ambedue le considerazioni siano ancora oggi molto attuali. In fondo, ben poco è cambiato dai tempi di Russell e di Ayer. Gli scienziati seguitano a diffidare dei filosofi (si pensi, tanto per fare un esempio contemporaneo, alle reiterate perplessità espresse dal genetista Edoardo Boncinelli nei riguardi della filosofia in generale e della filosofia della scienza in particolare); e i filosofi, con poche, virtuose eccezioni, continuano a presumere di essere più «profondi» degli scienziati, le cui incursioni nei meandri della filosofia sono giudicate dagli esperti, ben che vada, avventate o dilettantesche. Ahimè, un numero cospicuo di esempi conferma ciò che molti di noi sanno istintivamente, senza bisogno di prove ulteriori, ovvero che il tanto auspicato dialogo tra filosofi e scienziati è di norma un dialogo tra sordi.
Nel lumeggiare il carattere del suo illustre amico, Crawshay-Williams rispolvera una massima di Oscar Wilde che non conoscevo:
«l’uomo è un animale razionale che sempre perde la pazienza quando deve agire in armonia con i dettami della ragione».
Detto aforisma, oltre a corroborare una volta di più la tesi a suo tempo formulata da Borges sul dandy irlandese – «leggendo e rileggendo Wilde di anno in anno», chiosa il bardo bonaerense, «noto un fatto di cui i suoi panegiristi non hanno forse avuto nemmeno il sospetto: il fatto elementare e facilmente verificabile che Wilde ha quasi sempre ragione» –, si attaglia mirabilmente al temperamento ardente di Russell, capace, a volte, di drastici attacchi di bile e di contraddittorie asserzioni.
Se financo l’autore della monumentale History of Western Philosophy, fine logico e stimato filosofo, è stato capace di spazientirsi, abbandonandosi a rapsodiche crisi d’impulsività, non vedo proprio perché ci si debba stupire se a un uomo non altrettanto coltivato e dall’ingegno infinitamente meno fervido capiti di tanto in tanto di perdere le staffe. Narra l’Ariosto che anche il prode Rolando smarrì il senno e fu suo cugino Astolfo, uomo di rara arguzia che, montato in groppa ad un alato ippogrifo, lo recuperò planando sulla luna. Facezie a parte, siamo tutti, ciascuno alla sua maniera, illogici e passionali; se non lo fossimo, sarebbe una stranezza ben altrimenti inquietante. Pertanto, nei limiti della decenza e del giusto, non ci resta che comprendere, e condonare, le proprie e le altrui intemperanze.
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