Cafè de moka e Dediche
- Autore: Claudio Grisancich
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2015
È possibile che un gesto quotidiano, semplice, quasi scontato, compiuto in genere senza attribuirvi particolari valenze, divenga invece altamente simbolico, catalizzatore delle nostre energie, di tutto il nostro essere? Tanto da diventare rito significante, un momento in cui concentrare la vitalità e la passione, senza il quale la vita non ha più identità? La risposta è affermativa, basti pensare alla ritualità scontata ma necessaria delle strette di mano, a quanto esse manchino, ora, in tempo di segregazione covid. Oppure al messaggio dell’ikebana, l’arte giapponese di disporre i fiori, linguaggio non verbale di straordinaria bellezza, o ai saluti canonici, alla tazzina di caffè sorseggiata al bar o nell’intimità della propria casa.
Già il caffè, protagonista e metafora di una silloge in dialetto di Claudio Grisancich, Cafè de moka e Dediche (Hammerle editore, 2015, p. 76), con prefazione di Fulvio Senardi. Caffè e moka mitici, divenuti materia prescelta in cui proiettare se stessi, la propria unicità, la propria solitudine, l’invincibile coercizione, vedere riflesso il nostro essere soggetto al destino.
Il poeta sa benissimo tutto ciò; lo accetta con sguardo lucido, con la saggezza di chi ha compreso che è bene piegarsi a un ordine per sfuggire al nulla e al caos, a un ordine qualunque, anche alla preparazione di una tazzina di caffè. Memorabile quella di Eduardo sul terrazzino di casa in Questi fantasmi. Grisancich fa la stessa cosa, compie lo stesso sortilegio di Eduardo. Maestro di versi asciutti e rivelatori, ci invita nella sua cucina quasi come se entrassimo in una chiesa, nel suo tabernacolo. Eppure le poesie dedicate al caffè sono pochissime, intense fino allo spasimo, come
"Eternità
el picio strepito/ matina bonora / de là in cusina / scudele piatini / la fiama blu el / pignato del / late la Moka/ che se anima/... / casa (Eternità
il lieve strepito/ mattina di buonora/ di là in cucina /scodelle piattini / la fiamma blu il / tegamino del/ latte la moka / che si anima/...// casa)"
E bastano a dire che nella vita breve, terribilmente veloce e aleatoria, esistono fermate fatte di dolcezza che diventano eternità. Queste liriche raccontano l’inconsistenza del vivere proprio perché in esse tutto è impermanente, ma nello stesso tempo, e forse proprio per ciò, tutto è prezioso, profondo nel suo dispiegarsi leggero come per esempio nell’elencare la lista della spesa, o contemplare la pioggia oltre i vetri in compagnia di un libro, con la consapevolezza del mai più:
"Se godi nel tepido /la vita come mai / la sarà dopo (si gode nel tepore / la vita come mai / sarà dopo).
La dicotomia tempo/eternità serpeggia in tutta la prima sezione del libro, con una malinconia che ricorda Borges. È elegia che diventa splendore nei gesti dedicati a "lei" (la moglie scomparsa) neppure nominata eppure così presente nell’assenza:
"Dedica
do oci / che brusava / le distanze / gnente dopo / el gavarìa fato / come con ela / arente (Dedica
due occhi / che bruciavano / le distanze / nulla dopo / avrebbe fatto / come con lei / accanto)"
Poesia scarna, breve, non ermetica; non ha bisogno di nascondersi, ma di rivelarsi con assoluta innocenza e spietatezza pietosa, amorosa, secondo il dettato triestino di Saba e Giotti. Poesia cristallina e delicata, ma pure forte, assomiglia a un vino ad alta gradazione, stupisce, colpisce, persuade secondo la "persuasione" intesa da Carlo Michelstaedter, nel senso di autenticità, esistenza vera e tangibile, palpabile, fatta di cose, di immagini che si manifestano a noi nel loro volto nascosto, portato d’improvviso alla luce. Poesia come vento annunciatore, come fuoco perché ci brucia dentro. Che dire di una tovaglia, un manufatto umile ma simulacro di tutto quanto siamo? Nel poco troviamo l’immenso, in uno sguardo un intero volume di filosofia; questa la grazia del poeta, di questo poeta:
"La tovaia
oltra / el perimetro / de la tovaia / in / cusina / quel / che resta fora / poco /gh’interessa / se nassi / se mori / in / mezo/ se sogna / de / viver (La tovaglia
oltre / il perimetro /della tovaglia / in /cucina / quello / che rimane oltre / poco / gli interessa / si nasce / si muore / in/mezzo / si sogna / di/ vivere)"
lo sguardo di Claudio Grisancich non è mai disperato, neppure di fronte alla morte, neppure quando dopo essersi vestito per uscire si guarda allo specchio e si domanda con un risvolto implicito metafisico "per cosa ’andar e dove" (perché uscire e andare dove), perché "el meti su la moka cussì / passa -el pensa- ’sto pensier // molesto" (prepara la moka così /passa - egli pensa - questo pensiero //molesto). Il pensiero molesto riguarda il domani, cos’altro aspettarsi dalla vita, con uno sguardo (casuale?) al cielo "che par / s’ciarirse" (che sembra / schiarire).
La moka e il suo contenuto assomigliano al calice contenente l’Eucaristia.
La seconda parte del libro è dedicata al ritratto di figure, umanità varia a cui apparentarsi nel comune destino, nel comune cammino di desideri irrisolti, perché il desiderio è sempre tale, più grande del vissuto reale. Care come un amico pittore, e personaggi che addensano le giornate, altri da sé ma simili a sé, tra le altre un venditore di ricambi elettrici che sogna di dipingere come se fosse il Beato Angelico "ghe sarìa piasso" (gli sarebbe piaciuto), un piastrellista sempre in ginocchio nel lavoro divenuto condizione esistenziale, un macellaio, una donna delle pulizie che si commuove nell’udire un canto alla radio, Stabat mater dolorosa, ricondotto d’improvviso, come un’epifania joyciana, alla sua condizione:
"No ’la capiva el mondo / la lavorava al turno / presto de matina bonora / dona de le pulizie [...] a ’na finestra / la xe ’ndada / a vardar in - t- un / cortivo scuro / i oci / velati de pianto (non capiva il mondo / lavorava al turno / presto di mattina / donna delle pulizie [...] a una finestra /si è affacciata / a guardare in un / cortile oscuro / gli occhi / velati di pianto)"
Capire il mondo è la funzione del poeta. Entrare nell’intimità degli amici, dei conoscenti, dei passanti, estrarre il loro segreto, offrirlo a noi, perché anche noi possiamo capire e ritrovarci. Godere quell’attimo di eternità la mattina di buonora, nel bere il caffè, rito sacro sebbene profano, e in esso assolvere ogni condizione, propria e altrui.
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