Canne
- Autore: Giovanni Brizzi
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: il Mulino
- Anno di pubblicazione: 2016
La sconfitta che fece vincere Roma. Il paradosso delle guerre annibaliche, che più perdite umilianti infliggevano ai Romani meno piegavano la tempra delle gens repubblicane. “Canne”, un saggio agile di Giovanni Brizzi, docente di storia romana nell’Università di Bologna (il Mulino, maggio 2016, pp. 198, euro 15,00).
In Apulia (oggi Puglia), è stata combattuta il 2 agosto del 216 a.C. “una delle battaglie più cruente dell’antichità, certo la più famosa”, anticipa il prof. Giovanni Brizzi nel prologo, dove fornisce un’indicazione ragionata del luogo dello scontro. Polibio l’ha collocato attendibilmente nella piana del fiume Ofanto, grosso modo tra le attuali province di Bari e di Foggia, a 5 miglia dal mare e a 6 da Canusium (Canosa).
Sempre lo storico greco afferma che nessuno dei due schieramenti ebbe a soffrire per il sole in faccia, mentre i Romani patirono il vento da sud-ovest, che spingeva contro di loro polvere e stoppie. Il console Varrone, al comando quel giorno, aveva disposto le truppe con la fronte verso sud, appoggiando l’ala destra alla riva destra dell’Aufidum (Ofanto). Il sito va cercato uno o due chilometri più distante da dove lo hanno collocato gli storici. Siamo lì, quindi, ma non ci si aspetti di trovare sepolcreti o reperti metallici. Una necropoli c’è, su un’altura, ma risale al medioevo. La sepoltura di 55.000 caduti romani sul campo è semplicemente impensabile, l’esercito punico non poteva attardarsi a inumarli o bruciarli. Erano troppi, saranno stati lasciati al sole.
Né si potrebbero trovare resti di lame o altre parti di metallo, perché i Cartaginesi avranno accuratamente perlustrato il terreno per spogliare i morti di ogni oggetto utilizzabile, come si faceva su tutti i campi di battaglia antichi. Già a Canne, sarà accaduto ai soldati dei consoli Paolo Emilio e Gaio Terenzio Varrone di affrontare nemici che avevano indosso corazze e impugnavano armi sottratte a soldati romani caduti, viste le numerose precedenti vittorie dell’esercito dei Barcidi.
Un altro motivo questo per accrescere il terrore di ognuno dei combattenti alla vigilia dello scontro, che doveva essere piuttosto comune a quei tempi. Sul campo di battaglia antico non si spara da lontano contro un nemico nascosto da polvere e fumo degli scoppi: la morte è ravvicinata e quella per spada è
“macelleria autentica, una successione di corpo a corpo traumatizzanti, che coprono di sangue il vincitore non meno del vinto e lasciano a terra corpi smembrati”.
Non le ferite penetranti ma nette di giavellotti, lance o frecce, ma braccia e spalle staccate, teste divise dal busto, visceri allo scoperto.
Prima di descrivere la battaglia, Giovanni Brizzi si sofferma su Annibale Barca, sulle sue qualità (l’astuzia, la capacità di gestire un perfetto apparato spionistico e di proporre sorprese tattiche ai più compassati e conservatori consoli romani), rivelate nella campagna di Spagna e in quella d’Italia prima di arrivare in Puglia.
A Canne, i Romani impegnarono tutti i 6.000 cavalieri e almeno 65.000-70.000 fanti. Il loro spiegamento, molto più compatto e profondo del consueto, mirava a far pesare contro il nemico la forza del numero. Annibale disponeva di 10.000 cavalieri e 40.000 appiedati, 11.000 dei quali equipaggiati alla leggera. Un’armata composita: Punici, Numidi, Libici, Galli e Spagnoli. Dalla sua aveva la mente fertile: progettò di vincere arretrando, attirando il nemico contro il grosso delle sue linee e avvolgendolo, contando sulla determinazione degli stessi avversari, decisi a spingersi avanti. Così avvenne e fu strage di Romani. Circondati, pressati da ogni lato, persero lo spazio per una difesa efficace. Gran parte di loro non ebbe perfino la possibilità minima di combattere, non potendo che attendere di veder cadere i compagni davanti, prima d’essere a loro volta “macellati”. Molti soffocarono addirittura nella calca immane delle coorti schiacciate le une contro le altre. A nessuno riuscì di “vendere cara la vita”.
L’interesse del libro di Giovanni Brizzi sta a questo punto nell’agevole ricostruzione della riscossa romana e delle sue motivazioni: principalmente pulsioni politiche e psicologiche. Quando il panico per Annibale "alle porte" venne a sovrapporsi a quello incarnato da Cartagine, l’ormai
“dilagante imperialismo romano fece il resto”.
Quattordici anni dopo Canne, Roma azzardò e vinse. La città libica aveva risvegliato antichi terrori che si era cercato di esorcizzare disarmando tutte le potenze navali del Mediterraneo. Questo indusse a muovere dai sette colli “un’ultima, spietata guerra preventiva”, organizzando una spedizione oltremare e sbarcando in terra africana.
“Annibale ha insegnato a Roma la paura”.
E Catone, pronunciando per la prima volta la frase che divenne la conclusione di tutti i suoi interventi in Senato, mostrò un cesto di fichi freschi, raccolti appena tre giorni prima in terra punica. Per il bene di Roma non poteva che essere distrutta una città tanto vicina da non far deteriorare un frutto delicato come il fico. Carthago delenda est.
Canne. La sconfitta che fece vincere Roma
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