Canne al vento
- Autore: Grazia Deledda
- Genere: Classici
Sulla bianca “Collina dei Colombi”, il vecchio Efix osserva le ultime ombre del giorno che si allungano sulla vallata mentre, in lontananza, le rovine del castello si stagliano fiere contro l’azzurro dell’orizzonte. Poco lontano dalla sua umile capanna, cinto dalla corona dei monti nuoresi, sorge il piccolo villaggio di Galte. Una quiete antica e malinconica, spezzata soltanto dal gorgoglìo del fiume e dal fruscìo delle canne sferzate dal vento, avvolge il ricordo dei fasti e delle sventure della famiglia Pintor, di cui Efix è rimasto l’unico infaticabile servitore. I passi incalzanti e la voce del giovane Zuannantoni, ridestano Efix dai suoi tristi pensieri: le sue padrone chiedono di vederlo mentre in paese si sparge la notizia dell’arrivo imminente di Giacinto, nipote delle sorelle Pintor. L’inatteso evento risveglia nella memoria di Efix le immagini vivide di un passato che lo tormenta: la fuga di Lia, una delle quattro sorelle Pintor e madre di Giacinto, la morte ‘misteriosa’ del suo padrone, Don Zame, furioso per la fuga della figlia, l’ombra del disonore e della disgrazia che si abbatte impietosa su Ruth, Ester e Noemi, uniche superstiti della famiglia. Il vecchio servo spera che l’arrivo di Giacinto possa risollevare le sorti delle zie, rimaste in solitudine e in miseria nella decrepita casa dei Pintor. Ma le speranze di Efix sono destinate a svanire. Giacinto, in apparenza docile e pieno di buoni propositi, si rivela pigro, indolente, avvezzo all’alcol e al gioco. Per mostrarsi benestante agli occhi della gente del paese, prende in prestito del denaro dalla vecchia usuraia Kallina ma, non potendolo restituire, firma delle cambiali false a nome di sua zia Ester. La scoperta dell’inganno del nipote getta nella disperazione le sorelle Pintor e l’anziana Ruth muore di dolore. Giacinto, finalmente pentito, fugge a Nuoro con l’intenzione di lavorare per ripagare i suoi debiti, mentre il vecchio Efix, piegato dal peso del terribile segreto che custodisce da vent’anni e dal rimorso di non essere riuscito a proteggere le sue padrone, si allontana da Galte per intraprendere un lungo cammino di espiazione che possa cancellare le sue colpe.
Oltre ad essere l’opera che consacra il talento di Grazia Deledda, "Canne al vento" rappresenta un documento valido ed efficace per la ricostruzione del quadro storico, culturale e socio-economico della Sardegna del primo decennio del Novecento. Mentre l’Italia è impegnata nella guerra di Libia e il ceto sociale borghese si innesta prepotentemente nel tessuto economico e politico, la Sardegna rimane saldamente ancorata ai privilegi delle antiche famiglie della nobiltà contadina. I personaggi cercano affannosamente il riscatto morale e sociale, ma i loro sforzi si scontrano con la potenza oscura di un destino immutabile, proprio come le canne che non possono non piegarsi alla forza del vento che le agita. Un coro di vite che si fonde con quello di una terra ancestrale e selvaggia, popolata dai personaggi fantastici delle vecchie storie popolari, inondata dalla luce vermiglia dei suoi tramonti sul mare, cullata dal suono malinconico delle fisarmoniche che si perde tra l’inebriante profumo delle euforbie e il manto variopinto delle violacciocche.
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Vorrei solo aggiungere che il perno di tutte le vicende dei personaggi di “Canne al vento” altro non è che un “poderetto” di proprietà della famiglia Pintor, spettatore silenzioso delle loro vite e rifugio del servo Efix.
L’incipit del romanzo è di grande suggestione:
“Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l’argine primitivo da lui stesso costruito un po’ per volta a furia d’anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall’alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca "Collina dei Colombi". Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d’acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considerava più suo che delle sue padrone: trent’anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d’India che lo chiudono dall’alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.”
Questo appezzamento di terra (nonché emblema della natura e della vita terrena) viene infatti descritto come un micro-cosmo, un luogo onirico di rara bellezza:
“La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l’uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlo dei grilli precoci, qualche gemito d’uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa; sì, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti.”
La prosa della Deledda è ricca e forbita, e le descrizioni della natura e del paesaggio sono di una finezza ammaliante.
Letto al liceo tanti anni fa ne ho un ricordo meraviglioso, ma temo che le giovani generazioniu non siano più interessate a questo tipo di letteratura.
Di questo che è considerato il capolavoro della Deledda si è già detto tutto: l’immersione in un mondo magico di una Sardegna arcaica, la lotta degli uomini contro un destino ineluttabile, la colpa, l’espiazione e la redenzione, ma forse non abbastanza delle sue doti descrittive che si colorano di lirismo.
Quando insegnavo alla scuola media, feci fare delle ricerche linguistiche ai miei alunni su “Canne al vento” e su “La Madre”. Scoprimmo l’uso che la scrittrice fa dei colori con la caratteristica di aggiungere i suffissi ‘astro’ e ‘ognolo’ al verde, all’azzurro, al rosso : le macchie dei giuncheti sono giallognole, la vena del fiume è verdastra, le figure sono giallognole, la tenda dell’altare è giallastra , gli occhi sono d’un azzurro verdognolo, Il barlume è rossastro etc. oppure l’accostamento frequente di colori contrastanti come il bianco al nero.
Compilammo delle schede (allora su lucidi per lavagna luminosa) che proiettammo in un convegno sulla Deledda a scuola e a Nuoro in occasione del cinquantenario della morte della scrittrice. Ricordo che i miei alunni si entusiasmarono tantissimo, fecero a gara a leggere più romanzi della Deledda e ancora oggi mi ricordano quella ricerca che li fece amare (con orgoglio) una scrittrice prima donna italiana (e sarda) ad aver ricevuto il premio Nobel.