La più perfetta descrizione di marzo in poesia l’ha data Giovanni Pascoli nella sua sublime Canzone di marzo che racconta il risveglio della primavera.
Marzo è un mese vorticoso, in perenne corsa, che traduce il volo delle rondini che vengono dal mare per farsi un accogliente nido: tornano due temi ricorrenti - che potremmo definire quasi “capitali” - nella poesia di Pascoli, ovvero la “rondine” e il “nido”, figure che raggiungono la loro massima potenza espressiva e metaforica in X agosto.
La lirica è tratta dalla raccolta I Canti di Castelvecchio (1903-1912), dedicata dal poeta alla memoria della madre, come specificato nell’introduzione:
E su la tomba di mia madre rimangano questi altri canti!... Canti d’uccelli, anche questi: di pettirossi, di capinere, di cardellini, d’allodole, di rosignoli, di cuculi, d’assiuoli, di fringuelli, di passeri, di forasiepie, di tortori, di cincie, di verlette, di saltimpali, di rondini e rondini e rondini che tornano e che vanno e che restano.
Le rondini che fanno il nido sono una costante, così come i richiami e i cinguettii di uccelli che rimandano un messaggio vitale. C’è sempre, in questi componimenti, una nota dolente, poiché la vita, afferma Pascoli, senza il pensiero della morte è puro “delirio”. I Canti di Castelvecchio nascono da una perdita e fioriscono sulla tomba “antica” della giovane madre, a lei il poeta deve la propria attitudine contemplativa che è anche alla base della sua scrittura lirica.
Sono poesie nate in campagna, che risentono fortemente dell’ambientazione bucolica eppure conservano in sé una nota tragica dovuta alla drammatica esperienza autobiografica del poeta: alla morte del padre, cui è dedicata la celeberrima X agosto, fa seguito, appena poco più di un anno, la morte della giovane madre, assassinata invece dal troppo dolore causato dall’insopportabile perdita.
Lo stormire delle piante, i canti degli uccelli e delle cicale fanno da sfondo a queste poesie; ma l’atmosfera idilliaca è solo apparente, cede presto il passo a una prospettiva più cupa, a un presagio di morte. Persino il viaggio delle rondini è definito “tristo” e la scelta degli aggettivi non è casuale.
Nella sua Canzone di marzo Giovanni Pascoli descrive l’arrivo della primavera come una “torbida notte” che lentamente si schiarisce nel cielo illuminato da una nuova luce, più tersa, più limpida come l’acqua che, tremante, fa da sfondo a questo rinnovamento.
Il canto di primavera di Pascoli è fondato sull’ambiguità, sul profondo e intimo rapporto tra morte e vita; non dobbiamo dunque interpretarlo come un elogio festoso o la descrizione di un idillio bucolico, ancora una volta il poeta si serve della Natura per proiettarvi gli elementi più angosciosi dell’inconscio, il buio della psiche.
“Canzone di marzo” di Giovanni Pascoli: testo
Che torbida notte di marzo!
Ma che mattinata tranquilla!
che cielo pulito! che sfarzo
di perle! Ogni stelo, una stilla
che ride: sorriso che brilla
su lunghe parole.Le serpi si sono destate
col tuono che rimbombò primo.
Guizzavano, udendo l’estate,
le verdi cicogne tra il timo;
battevan la coda sul limo
le biscie acquaiole.Ancor le fanciulle si sono
destate, ma per un momento:
pensarono serpi, a quel tuono;
sognarono l’incantamento.
In sogno gettavano al vento
le loro pezzuole.Nell’aride bresche anco l’api
si sono destate agli schiocchi.
La vite gemeva dai capi,
fremevano i gelsi nei nocchi.
Ai lampi sbattevano gli occhi
le prime viole.Han fatto, venendo dal mare,
le rondini tristo viaggio.
Ma ora, vedendo tremare
sopr’ogni acquitrino il suo raggio,
cinguettano in loro linguaggio,
ch’è ciò che ci vuole.Sì, ciò che ci vuole. Le loro
casine, qualcuna si sfalda,
qualcuna è già rotta. Lavoro
ci vuole, ed argilla più salda;
perché ci stia comoda e calda
la garrula prole.
“Canzone di marzo” di Giovanni Pascoli: analisi e significato
Link affiliato
Canzone di marzo di Giovanni Pascoli viene spesso interpretata come un inno alla gioia e alla fertilità della primavera; ma a una lettura più profonda e attenta si può comprendere che non è questo l’intento del poeta. Ogni elemento naturale proposto in questo componimento assume un significato ambiguo, si sdoppia in una sorta di ambivalenza semantica: la poesia inizia infatti con un’allusione alla “notte torbida di marzo” e questa accezione oscura, questo riferimento all’impurità, al male, al peccato ritorna ciclicamente in ogni strofa. Insieme alle cicogne bianche - simbolo per eccellenza della fertilità e della nascita - si destano anche le serpi, emblema del peccato originale. La natura assume una funzione fortemente simbolica, proprio come ne Il gelsomino notturno o ne La digitale purpurea: il risveglio fisico delle fanciulle che si destano sembra alludere a un risveglio sessuale, è infatti insidiato dall’immagine delle serpi e in loro permane il ricordo della “notte torbida”.
Ancor le fanciulle si sono
destate, ma per un momento:
pensarono serpi, a quel tuono;
sognarono l’incantamento.
Ritorna la velata allusione alla fertilità e, dunque, all’apparato riproduttivo anche nell’immagine delle api che si apprestano alla loro opera di impollinazione. Non è un caso che Pascoli scriva “la vita gemeva”: la primavera appare come una partoriente, con sforzo e con fatica è chiamata a generare. Non esiste nascita senza violenza: il legame intimo e profondo tra vita e dolore, il sottile confine tra morte e vita è ribadito dal poeta in ogni verso. L’esistenza stessa è originata e si genera dal dolore, non c’è nascita che non comporti un piccolo atto di violenza.
Nella promessa della primavera l’innocenza viene insidiata da un nuovo ardore. Ritornano dunque le immagini cupe che caratterizzavano la natura già ne L’assiuolo con i riferimenti all’oscurità, ai lampi, al temporale imminente.
Persino il viaggio delle rondini viene descritto come “tristo”; non è un ritorno lieto, il loro canto sembra essere venato di preoccupazione mentre osservano, in volo, il tremolio dell’acqua sotto i nuovi raggi del sole.
Nella strofa finale ritorna l’immagine del nido, cara a Pascoli. In primavera le rondini costruiscono il loro rifugio, pronto ad accogliere i nuovi nati. Ma in quel nido d’argilla che si sfalda possiamo già cogliere un presagio di morte; la visione del nido distrutto si contrappone all’immagine vitale della “garrula prole”, sembra essere un anticipo sinistro della straziante scena dei rondinini che pigolano “sempre più piano” aspettando invano il ritorno della madre in X agosto.
La Canzone di marzo pascoliana si fonda sulla stretta relazione tra vita e morte; traducendo la primavera in un’immagine vitale e al contempo violenta, ossimori e antinomie rappresentano la cifra compositiva, l’intelaiatura stessa di questo testo.
Il risveglio primaverile ci parla dell’universalità del dolore e anche dell’impulso misterioso che guida alla procreazione e alla continua perpetuazione della vita; l’ultima parola utilizzata da Pascoli, a conclusione del verso, non a caso è proprio “prole”.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Canzone di marzo” di Giovanni Pascoli: il risveglio (violento) della primavera in poesia
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Poesia Storia della letteratura Giovanni Pascoli
Lascia il tuo commento