Caporetto
- Autore: Alfio Caruso
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Longanesi
- Anno di pubblicazione: 2017
Alfio e Ciccio, due giovani etnei nella Grande Guerra: il conterraneo Alfio Caruso li ha resi simboli, testimoni e piccoli eroi inconsapevoli di una pagina di caduta e di riscatto degli italiani, cento anni fa. Il giornalista, scrittore e saggista catanese è autore di “Caporetto. L’Italia salvata dai ragazzi senza nome” (Longanesi, ottobre 2017, pp. 330, euro 18,60), un libro di storia che racconta una controversa vicenda nazionale con un taglio originale e con la cadenza di un romanzo.
Con Alfio e Ciccio erano in tanti a combattere per Trento e Trieste, ignorando dove fossero. Un secolo fa, milioni di giovani italiani si sono battuti e sono morti senza sapere perché.
Undici “spallate” in due anni e mezzo di conflitto: vuol dire andare sempre all’assalto di trincee austriache ben organizzate, protette dal filo spinato, dal tiro falciante delle mitragliatrici, da quello devastante dei cannoni. Poi, il 24 ottobre 1917, il crollo a Caporetto, la rotta, la ritirata al Piave, cento chilometri indietro. Quattrocentomila tra arresi e circondati. La paura del tracollo nazionale.
“Ed ecco che, all’improvviso, tanti di coloro che erano scappati, tanti di coloro che avevano alzato le mani tornarono indietro per afferrare il fucile e combattere”.
Le cartoline precetto, per Alfio e Ciccio, arrivano il 27 maggio 1915. Da tre giorni il regno d’Italia ha dichiarato guerra all’impero austro-ungarico e tutto quello ch’era riuscito a strappare nelle prime 72 ore erano pochi ettari di pianura e una villa. Non altro che il territorio abbandonato dal nemico per consolidarsi su linee più forti e Villa d’Este, a Tivoli, requisita come preda di guerra perchè di proprietà dell’erede asburgico.
Alfio ha ventidue anni e la quinta elementare. È figlio unico e gli aranceti del vecchio padre defunto gli danno da vivere bene a Biancavilla. Il compaesano Ciccio di anni ne ha venti, sei fratelli minori, un diploma da maestro, due anni di giurisprudenza.
Trieste, dunque. All’universitario, che almeno sa, poco importa. Per Alfio, invece, è un puntiglio verificare sull’atlante
“unne minchia sta”.
Anche la grandissima parte dei coscritti che salgono sulle tradotte ignora dove sia. Eppure dell’irredenta tutti parlano, mentre Trento e Gorizia, poverine, restano in disparte nell’indifferenza generale.
Il biancavillese possidente ha la passione delle macchine e una patente, merce rara allora. Viene assegnato a un autoreparto e messo alla guida dei Fiat 15 ter, i camion dell’Intendenza. Il futuro avvocato è invece spedito al corso ufficiali, nell’Accademia di Modena, tre mesi appena per formare un comandantino di truppa: poco più che carne da cannone. Non solo infatti non sapevano perché combattere, ma non venivano nemmeno addestrati a farlo. L’avrebbero imparato sul campo, se non altro i superstiti delle stragi di novellini.
L’autiere Alfio gira nelle retrovie, il sottotenente Ciccio finisce in prima linea sul Carso e osserva come vanno le cose al fronte, come vanno male soprattutto, per gli errori dei superiori e i difetti dei materiali.
Arriva la notte di Caporetto. Alle 3.00 del 24 ottobre 1917 il nemico scatena un attacco preparato bene e condotto meglio, contro uno schieramento italiano sbilanciato in avanti, ammassato nelle trincee più esposte e mal guidato dai comandi. Questa volta in azione ci sono anche i tedeschi, che hanno un modo del tutto nuovo di condurre l’attacco. Squadre d’assalto di 11 uomini (7 fucilieri e 4 armati di mitragliatrici, lanciafiamme o mortai leggeri), si infiltrano in profondità, eliminano capisaldi, creano scompiglio tra le truppe arretrate, senza curarsi delle forze nemiche che si lasciano alle spalle, arroccate sulle cime e isolate. A liquidarle provvederà il grosso delle fanterie, che arriva più lentamente.
Le linee italiane sono travolte: in poche ore la sorte della battaglia è decisa. Nella confusione della ritirata Alfio scarrozza un po’ tutti, comprese le signore del postribolo militare di Cormons. Ciccio vede crollare il mondo addosso, tutti i sacrifici dell’esercito vanno in malora e la possibilità di vincere gli sembra svanita.
Questo non piace a nessuno: arrivati sul Piave, i soldati si piantano saldi sulla sponda destra davanti al nemico, sono stanchi di dargli le spalle. La guerra finirà con una sconfitta definitiva e allora meglio che a perdere siano i crucchi. A giugno 1918 i nostri tengono il Piave. A fine ottobre vanno a vincere. Molti sono gli stessi ai quali il Generalissimo Cadorna aveva dato del “vigliacchi”.
“Vilmente ritiratisi senza combattere”.
Non era vero, non per tanti.
Alfio e Ciccio tornano integri a Biancavilla. Il primo senza aver visto Trieste (lo farà solo negli anni Trenta), il secondo sicuro d’essere stato miracolato dalla Madonna: è uno dei 4.000 ufficiali sopravvissuti tra i 15.000 che avevano cominciato la guerra.
Nel novembre ’68 a Ciccio viene consegnata la medaglia di cavaliere di Vittorio Veneto riconosciuta ai reduci.
“Chissà cosa avrà commentato Alfio dall’aldilà”.
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