Le poesie di Primo Levi ci mostrano un volto inedito dell’“uomo del lager”, rivelandoci un aspetto forse meno storico ma più romantico. Nei suoi versi Levi tratta il tema della memoria e del tempo, ma parla soprattutto d’amore e in particolare del sentimento che lo lega alla moglie, Lucia Morpugno, conosciuta prima dell’ingresso nel lager di Auschwitz e sua eterna promessa di ritorno alla vita. A lei è dedicata Cercavo te nelle stelle, una delle poesie d’amore più belle di sempre.
Nella prefazione alla prima edizione della raccolta Ad ora incerta (Garzanti, 1984) Primo Levi scriveva che la poesia a lui talvolta pareva più idonea della prosa per fissare un’idea o un’immagine e che “ad ora incerta” - da qui il titolo del volume in versi - aveva ceduto alla spinta umana di comunicare attraverso la poesia. “Chi non ha mai scritto in versi?” si domandava Levi nell’introduzione al suo libretto poetico e subito rispondeva: “Uomo sono”. Ecco, le liriche di Primo Levi ci rivelano soprattutto questo: un’umanità universale e sono parole in cui tutti noi lettori possiamo riconoscerci, indipendentemente dai diversi vissuti personali, dalle singole esperienze di vita. La dicotomia tra eros e thanatos onnipresente in questi scritti ricorda una celebre poesia di Ungaretti, Veglia. In quella lirica il poeta, disteso vicino al compagno massacrato dai corpi di mortaio, scriveva “lettere piene d’amore”. La stessa netta opposizione tra la morte e lo straziante attaccamento alla vita si trova nelle poesie di Primo Levi che, dopo aver conosciuto l’orrore del lager e quindi “la morte in vita”, dopo aver sperimentato la terribile privazione della sua umanità, scrive Cercavo te nelle stelle, dedicata alla moglie Lucia. Il riferimento al lager in questi versi è presente, ma sottintenso, l’autore parla di un “mondo che era uno sbaglio di Dio”; questa definizione può valere anche per il nostro mondo, in cui si continuano a combattere guerre, a consumare violenze, ma Levi attraverso le sue parole ci ricorda “ciò che inferno non è”.
Scopriamo testo e analisi della poesia.
“Cercavo te nelle stelle” di Primo Levi: testo
Cercavo te nelle stelle
quando le interrogavo bambino.
Ho chiesto te alle montagne,
ma non mi diedero che poche volte
solitudine e breve pace.Perché mancavi, nelle lunghe sere
meditai la bestemmia insensata
che il mondo era uno sbaglio di Dio,
io uno sbaglio del mondo.E quando, davanti alla morte,
ho gridato di no da ogni fibra,
che non avevo ancora finito,
che troppo ancora dovevo fare,
era perché mi stavi davanti,
tu con me accanto, come oggi avviene,
un uomo una donna sotto il sole.
Sono tornato perché c’eri tu.
“Cercavo te nelle stelle” di Primo Levi: analisi e commento
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Cercavo te nelle stelle fu scritta nel febbraio 1946, quando ancora l’esperienza di Auschwitz era per Primo Levi un ricordo recente, una ferita aperta che, purtroppo, come sappiamo, non si sarebbe mai rimarginata.
Tramite questa poesia Levi afferma che è stato il pensiero della moglie, Lucia Morpugno, a salvarlo dall’inferno del lager e a mantenerlo, nonostante l’orrore, saldamente attaccato alla vita.
L’aspetto più commovente della lirica tuttavia è che Levi ci parla di un amore nato ancora prima di aver un destinatario preciso: la lirica si apre con un verbo non casuale, che designa un’azione vaga e indefinita, “cercavo” cui l’autore unisce il complemento oggetto “te”, lasciando intendere che la sua ricerca era iniziata prima di sapere chi fosse l’oggetto di quel suo desiderio, addirittura prima ancora di sapere “cosa fosse il desiderio”. L’amore ci viene rivelato attraverso un’operazione retrospettiva e singolare che parte dall’infanzia con un bambino che sogna e guarda le stelle, prova solitudine ma non sa come colmare quel suo strano malessere e chiede dunque rassicurazione agli elementi della natura: le stelle, le montagne, a tutto ciò che è alto, elevato e sembra quindi avvicinarsi a Dio. Una volta cresciuto e sperimentato il dolore, quello stesso bambino giunge a negare Dio e persino sé stesso in quella che definisce “un’insensata bestemmia”, dettata dalla visione dell’orrore, dall’atroce negazione delle stelle e del sogno. Dietro questi versi si cela la visione gelida del lager, ma riflettono anche la sofferenza viva di una “mancanza”: ciò che spinge l’autore a negare sé stesso come uno sbaglio, compiendo di fatto la più “insensata bestemmia”, è l’assenza dell’amore, “perché mancavi” dice, sottintendendo di nuovo quel “tu”.
Qui si può notare che il tempo narrato da Levi non è necessariamente cronologico: quando il poeta parla di sé stesso “bambino” intende evocare soprattutto un senso di “stupore” e di “innocenza”, non necessariamente un’età della vita.
Si osservi poi che il verbo “amare” non viene mai citato, è contenuto in altri verbi, forse persino più potenti ed evocativi, “cercare”, “mancare” che infine trovano compimento nel climax finale: “perché mi stavi davanti”.
L’amore viene presentato quindi come una ricerca, iniziata ancora prima di sapere quale ne fosse lo scopo. Neppure Lucia viene mai nominata, è tutta racchiusa nell’uso, nella reiterazione anaforica di quei pronomi: lei è quel “tu” che ritorna come una costante, sino a rivelarsi nel finale inondato di luce “un uomo una donna sotto il sole”. La poesia viene caricata da un senso di attesa che si riflette nel ritmo incalzante che Levi dà alle parole, unite tra loro da allitterazioni e assonanze, ecco che nel finale dopo tanto cercarsi, mancarsi, i due amanti si ritrovano come rispondendo a un disegno del destino - cui rimandano per l’appunto “le stelle” citate nel primo verso che riflettono l’idea comune che il corso della nostra esistenza sia in qualche modo influenzato dal movimento degli astri, da una trama segreta e per noi inconoscibile.
Nel verso conclusivo è racchiuso tutto il senso dell’intera poesia:
Sono tornato perché c’eri tu.
La donna amata, quindi Lucia, viene a personificare la salvezza riflessa nelle stelle che nell’ingenuo stupore giovanile Levi osservava incantato, con l’animo pieno di speranze. È stato il pensiero di lei, afferma il poeta, a salvarlo della morte e a dimostrargli l’esistenza di qualcosa di superiore - che lui aveva negato - accecato dall’orrore. Nella strofa finale Primo Levi non pone nessuna congiunzione tra “un uomo una donna” come per testimoniare l’incontro: i due sono ormai divenuti una cosa sola.
L’opposizione tra il tempo collettivo della Storia - che emerge soprattutto nella seconda strofa - e il tempo singolo della coscienza individuale, della memoria, è una delle chiavi di lettura più interessanti della poesia. La Storia è qualcosa che accade, è tutto “il resto”, cui si oppone l’esistenza umana della singola persona qui espressa attraverso l’“io” che ha per oggetto della sua ricerca un unico destinatario: “te”. Proprio in questa corrispondenza esclusiva, tra l’io e il tu, è racchiusa la salvezza, ovvero ciò che nega la morte, ciò che spinge il poeta a gridare “no” di fronte alla prospettiva della fine con ogni fibra del suo essere.
“Cos’è che ci tiene in vita nonostante il dolore?” sembra domandarsi Primo Levi e in questa poesia ci dà la sua personale risposta, che ha un valore universale come tutti i suoi scritti e dopo - ancora una volta - passa il testimone alla generazione successiva. La bellezza di questa poesia, molto diversa dalla più nota Shemà posta come introduzione a Se questo è un uomo, è che Levi ci ricorda che mentre il mondo tremava sconvolto dalla guerra e dal male più nero, nel tempo in cui “fu costruito Auschwitz e distrutta Hiroshima”, c’era un uomo che ancora amava, o meglio, che si “limitava ad amare”. E pensare che l’amore, ovvero il sentimento più umano e per definizione irrazionale, possa sopravvivere persino nell’inferno (razionalmente architettato) del lager è ciò che davvero ci consola e vale più di ogni preghiera.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Cercavo te nelle stelle”: la poesia di Primo Levi dedicata alla moglie Lucia
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