Come una macchina volante
- Autore: Mimmo Locasciulli
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Castelvecchi
- Anno di pubblicazione: 2018
Non è elegante autocitarsi, il fatto è che – a dispetto del tempo intercorso - non cambierei una virgola di quanto ho scritto su Mimmo Locasciulli in “Sognadoro e altre storie” (Bastogi).
Riletto, (ri)scritto e sottoscritto, parola per parola: “(…) si tratti di aerei presi e perduti, macchine “a tutto gas per le vie della città”, treni della notte, corse di “ombrelli, taxi e metrò”, navi “che portano via lontano”. O di valigie, armoniche, libri “per puntare in un’altra direzione”: il filo rosso trasversale al corpus discografico di Mimmo Locasciulli è la dinamicità. Dentro e fuori le brume esistenziali, i ricordi, gli amori persi e ritrovati, il folk-rock, il jazz, sigarette, bottiglie, cappelli, ideologie, consuetudini (…) Le canzoni di Locasciulli sono tracce di vita spesa e vissuta. Frammenti di un puzzle esistenziale composto e ricomposto di continuo”.
Parafrasando in sintesi: tutto scorre, c’è “una vita che scappa” ma qualcosa rimane (“tra le pagine chiare e le pagine scure”, avrebbe aggiunto qualcuno che Locasciulli conosce da vicino). Impigliata tra il presente e la storia, tra i ricordi e la vita attuale. “Come una macchina volante” (Castelvecchi, 2018) transita alla cronaca come l’esordio narrativo di Mimmo Locasciulli, e la conferma piena di quanto avete appena letto. In apparenza una biografia, nella sostanza parecchio di più. Facciamo allora che si tratta di una biografia alquanto lata, e che adesso accenno al perchè. Perché oltre a seguire i ricordi dell’artista da giovane - il suo romanzo di formazione: dal mondo agricolo di Penne (in Abruzzo) alle mille luci di Perugia e Roma (soprattutto) poi, nel doppio ruolo di medico e cantautore -, rivela prossimità con sfondi riferenti a un’Italia, a una musica, e perché no, anche a un sentire che non ci sono più: il piccolo mondo antico del Paese natale, gli slanci entusiastici degli anni Cinquanta e quelli ideologici dei Settanta (e tra gli uni e gli altri un Sessantotto vissuto dall’autore più sui libri - di medicina e non - che sulle barricate), la fervida cantina del Folkstudio e i cantautori (e i folksinger, e i jazzisti) che vi suonavano dentro. Artisti allora in fieri, come Stefano Rosso.
A Mimmo Locasciulli basta una manciata righe per rivelarlo da presso. E a me bastano queste stesse righe per restituire l’idea della sostanza di cui è composta la sua scrittura:
“Mi trovavo molto bene con Stefano Rosso; gli invidiavo la naturalezza e l’intelligenza con le quali rappresentava il suo mondo popolare. I suoi occhi erano furbi, in continuo movimento, perennemente in fuga. Aveva baffi malandrini, da zingaro urbano, e parlava veloce che a volte non capivi una parola. Le sue canzoni nascevano dal fracasso di Trastevere, dai colori dei panni alle finestre, dalla puzza di fritto nelle strade. Lo ascoltavi e vedevi un film. Era un neorealista mascherato da cantante. Era il più vero fra tutti noi” (pag. 91).
Una scrittura incisiva, riflesso di uno sguardo interiore attraverso cui Locasciulli filtra sogni, riflessioni e storie di vita compresi nel testo. Un taglio scattante (a proposito della dinamicità cui accennavo all’inizio) ma senza sciatteria, e nemmeno furberia. Il libro è sincero, e affatto auto-celebrativo.
Per rifarmi a quanto scrive Walter Veltroni nella postfazione al romanzo:
“ (…) Cosa ci racconta Mimmo Locasciulli, in arte agli inizi Mimmo Ferri? Ci racconta di sé, senza vantarsi di nulla. Ci racconta del suo arrivo al Folkstudio con una chitarra infilata in uno scatolone di cartone, del suo primo concerto solista in cui la parola è doppia, visto che per la prima volta sul palco c’era solo lui, ma anche in platea c’era un solo spettatore, abbandonato persino dagli amici portati per fare numero, ci racconta una stagione strana e fortunata. Quella della nascita della nuova canzone italiana che si metteva in mostra in una sala minuscola a forma di elle (…) Ma ci racconta anche di vicissitudini personali, di una brutta (e mal curata) appendicite finita in peritonite che stava per spedirlo all’altro mondo, di una Perugia da fuorisede tra studenti americani fumati sui gradini della piazza, di una Roma scoperta dopo i vent’anni piena di fascino e di promesse. Anche di un Sessantotto vissuto in una maniera molto particolare, lontano dai collettivi e dalle manifestazioni, ma non lontano dai valori di solidarietà e cambiamento, di ribellione e spinta creativa”.
Il romanzo copre un arco temporale relativamente ristretto (dal 1949 al 1975): data la sua caratura – una caratura binaria, intima e collettiva al contempo - e la piacevolezza del tratto narrativo, auspico fortemente una parte seconda.
COME UNA MACCHINA VOLANTE
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