Conversazioni con Jung. Quaderno di appunti 1946-1961
- Autore: Edward Armstrong Bennet
- Genere: Psicologia
- Categoria: Saggistica
Conversazioni con Jung. Quaderno di appunti 1946-1961, edito da La biblioteca di Vivarium in versione italiana nel marzo del 2000 (la traduzione è di M.I. Wuehl), è una raccolta di ricordi legati all’affascinante figura dello psichiatra e psicoanalista Carl Gustav Jung (1875-1961) di un teologo e psicologo oggi ignoto ai più, Edward Armstrong Bennet (1888-1977), che ha avuto modo e fortuna di frequentare la casa del grande pensatore svizzero negli ultimi quindici anni della sua vita. Nello specifico, Conversazioni con Jung riporta annotazioni in forma diaristica scritte tra il 1946 e il 1961. Tali colloqui porteranno poi Bennet a due vere e proprie pubblicazioni, C.G. Jung e What Jung Really Said.
Dopo aver letto Jung parla (una raccolta davvero illuminante oltre che appassionante di interviste rilasciate da Jung) e la celebre autobiografia realizzata da Aniela Jaffé (psicologa tedesca ex paziente di Jung, poi segretaria dell’Istituto Jung e infine divenuta segretaria personale di Jung), questo libro può risultare nel complesso meno seducente, forse anche per lo stile asciutto, anonimo e quasi "inespressivo" adoperato da Bennet (non si produce quasi mai né in critiche né in elogi, peraltro, preferendo la strada dell’osservazione tout court). La parte dal 1957 si intensifica però di spunti più interessanti.
Ma ritengo che la lettura dell’intera raccolta possa rivelarsi illuminante soprattutto per un aspetto. Un aspetto inerente l’inconscio personale tanto quanto l’inconscio collettivo (ossia due dei capisaldi del pensiero junghiano).
Esiste secondo Jung una sorta di fiumana indistinta fatta di mondo primitivo, credenze popolari, fiabe, leggende, testi storici, testi antichi di carattere mitologico, testi sacri, provenienti da ogni parte del mondo e ignoti ai più, che costituisce un vero e proprio serbatoio dal quale la nostra mente continua e continuerà ad attingere.
Era proprio di Jung, in modo molto più spinto che in Freud, pensare che le immagini presenti nei nostri sogni, ma anche i nostri pensieri, le nostre fantasie, le nostre scelte, gli accadimenti della nostra vita attingano da questo fiume, da questo magma. Noi, secondo il pensiero di Jung, siamo perfettamente ignari di questo nostro attingere continuo da tale serbatoio, e in buona parte siamo pure inconsapevoli dei suoi singolari contenuti; ma Jung fu il primo a concepire l’idea di un inconscio collettivo, e quindi di un ponte tra noi, uomini d’oggi, e un magma culturale che ci precede, antichissimo. Risalendo (attraverso studi pazienti e meticolosi, ricerche, viaggi) all’origine di una determinata immagine archetipica (per esempio l’immagine simbolica presente in un sogno, di primo acchito magari illogica, oscura, del tutto impenetrabile per un profano), Jung riteneva di coglierne di conseguenza anche il significato, quando invece il paziente autore di quel sogno dinanzi a essa si sentiva del tutto disorientato.
Anche se non detto esplicitamente, dal libro di Bennet si può secondo me ricavare come l’analisi junghiana sia per sua natura schiettamente e profondamente culturale — qui intendo proprio cultura in senso altamente specialistico — e quindi in buona parte controintuitiva, malgrado si voglia far intendere quella fiumana indistinta come un fatto di Natura. Senza un’adeguata preparazione culturale multidisciplinare, appunto, specialistica, lo psicoanalista non può cogliere il linguaggio del paziente, l’inconscio del paziente, anche se si tratta di un paziente assolutamente non acculturato.
Lo psicoanalista viene quindi visto un po’ come un tramite culturale fra l’Umano (fatto di sostanza archetipica, ma totalmente inconsapevole di questa sua natura) e il mondo magmatico archetipico. Questo penso sia appunto l’elemento cruciale che si può ricavare da questi appunti.
Da questi appunti di Bennet non emerge però, mi sembra, la questione fondamentale sulla soggettività del paziente, sulle caratteristiche che rendono un individuo unico.
Veniamo anche a sapere che l’anziano Jung parlò molto, con Bennet, di Freud. I riferimenti a Freud presenti in questo libro mettono in luce la parte di Jung più avversa al suo maestro (si tenga presente la famosa rottura avvenuta molti anni prima, tra il 1912 e il 1913), visto in un’ottica a mio giudizio un po’ troppo "riduzionista". Si potrebbe anche obiettare il fatto che pur accusando Freud di dogmatismo e di un atteggiamento scevro da empirismo, Jung nel corso della sua parabola di pensatore sia comunque lui stesso inevitabilmente e fisiologicamente caduto in alcune "trappole dogmatiche".
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