Lo diciamo subito, il termine non è ancora entrato ufficialmente nei dizionari, ma qualcosa ci lascia intuire che non mancherà nella lista dei futuri neologismi 2024. Vacansia è la parola dell’estate, come ci suggeriscono post ironici - ma non troppo - sui social network e vari simpatici gadget a tema.
Sapete cosa è la “vacansia”? Forse ancora non conoscete il significato di questa parola, ma di certo conoscete bene la sensazione che intende esprimere. Si tratta di un mood strettamente correlato al vivere contemporaneo: non a caso, come dimostrano ecoansia e affini, le parole di derivazione ansiogena nel nostro vocabolario sono aumentate.
L’ansia ormai è parte integrante dell’alfabeto del presente, non ce lo insegna solo il successo di Inside Out 2 con l’ingresso del nuovo formidabile personaggio di “Ansia”, già divenuta paladina indiscussa delle emozioni. Gli psicologi oggi la definiscono la “condizione centrale della nostra epoca”, va da sé quindi che questo influisca anche sul lessico e, di conseguenza, sul linguaggio orale: osservate bene, stiamo declinando ogni termine in una prospettiva ansiolitica, persino una parola spensierata, leggera, foriera di relax come “vacanza”, si ribalta nel suo opposto.
“Vacansia” sembra un ossimoro ma non lo è; o almeno, non del tutto, potremmo invece definirlo un paradosso della contemporaneità.
Vi spieghiamo il neologismo dell’estate 2024.
Cos’è la “vacansia”?
Le parole oggi vengono sempre più a definire fenomeni sociali, intersecandosi di fatto con la sociologia, la filosofia e altre branchie del sapere. Vacansia è una di queste parole limitrofe, cioè che designano sia uno stato d’animo che una sorta di psicosi collettiva. Dunque, cosa vuol dire? È l’ansia di stare in vacanza?
Non propriamente, ma quasi. La vacansia indica l’incapacità, strettamente contemporanea, di dedicarsi al riposo o al relax senza provare sensi di colpa o un’improvvisa frenesia di “fare qualcosa”, essere operativi ed efficienti o sbirciare di nascosto le mail di lavoro. Tutto ciò è anche una conseguenza della digitalizzazione: al giorno d’oggi diventa sempre più difficile “staccare la testa” e dedicarsi a un riposo totale, perché impegni, comunicazioni, notizie sembrano inseguirci ovunque. La velocità frenetica del digitale sta avendo degli effetti diretti sulla nostra percezione del “tempo interiore”: sul web tutto accade continuamente, ci basta aprire una app sul telefono per essere bombardati di notizie, oppure da video e post in cui tutti hanno qualcosa da dire e, soprattutto, tutti stanno facendo qualcosa. Tra l’altro, anche se si resiste alla formidabile tentazione di aprire una qualunque app, il digitale ci perseguita comunque sotto forma di notifica.
La disconnessione totale è diventata impossibile e ha le sue conseguenze.
La noia, l’ozio vacanziero (peraltro sanissimo ozio vacanziero) non sono più contemplati nell’iperattivismo che caratterizza la modernità. Nell’epoca digitale il presente si è smarginato, ha smarrito i contorni, è diventato un immediato futuro: l’attimo è già svanito ed è subito sostituito dal futuro. È proprio questa capacità programmatica del nostro cervello di concepire e immaginare il futuro - che pare sempre sul punto di accadere - ad alimentare il nostro senso d’ansia.
Se ti riposi, non sei più al passo; se ti fermi resti indietro, perdi l’occasione d’oro di parlare della notizia del giorno, di commentare, di interagire o - detto più semplicemente - di mostrarti come una persona consapevole, attenta ai problemi del mondo, efficiente e produttiva. Chi ha tempo non aspetti tempo, sembra essere il motto del nuovo millennio: la verità è che il tempo non sembra bastare mai, poiché le aspettative sociali si sono rovesciate sull’individuo con un effetto devastante, per cui l’individualismo fine a sé stesso viene criminalizzato. La condanna del riposo è un’altra conseguenza di questa socializzazione ipertrofica promossa dal digitale: viviamo in una cultura che criminalizza il “dolce far niente”, persino in vacanza siamo bombardati dai consigli dei travel blogger che continuamente ci dicono “dove andare, cosa fare, cosa vedere”. Individui che sembrano matematicamente programmati per non stare fermi un attimo e girare il mondo come trottole. L’ironia, va da sé, fa parte del termine stesso di “vacansia”: fa ridere, è vero, ma fa anche riflettere, perché ci costringe a confrontarci con la nostra inquietudine scoprendo, con un certo fastidio, che non è una caratteristica individuale, ma un prodotto sociale.
“Vacansia”: l’etimologia della parola
La “vacansia” sembra amplificare la staticità imposta dall’ansia, anche a livello propriamente etimologico: “vacanza” deriva dal latino “vacare”, però usato in senso intransitivo quindi “essere vuoto”, la sospensione è quindi colmata dall’ansia (che deriva dal verbo latino “ angĕre”, che significa “stringere”, “soffocare”) con un risultato decisamente controproducente che viene a formulare l’esatto opposto del termine vacanza, in cui il relax viene sostituito da una condizione effettiva di stress.
Come salvarsi dalla “vacansia”?
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Di tanto in tanto qualcuno sui social si ricorda di promuovere la “salute mentale” e allora propone il classico tutorial di salvataggio che grida a caratteri fluorescenti, naturalmente maiuscoli: DISCONNETTETEVI. Il digitale, il mondo astratto degli algoritmi e delle notifiche, non conosce il riposto; ma il cervello umano sì, non è programmato per stare sempre in una condizione di attività o attivismo, in una condizione di allerta e tensione. In verità, la disconnessione non basta, inoltre al giorno d’oggi è diventata pressoché impossibile. Quello che è necessario, per salvarsi dalla vacansia e non solo, è un cambiamento culturale.
Lo raccontano bene i libri del filosofo coreano Byung-chul Han, cui dobbiamo tra l’altro la mirabile definizione di Società della stanchezza per descrivere il mondo contemporaneo. Han nei suoi testi spesso analizza il disagio dell’uomo moderno, esposto a un continuo attivismo, a una perenne competizione ormai latente ma indivisibile dalle nostre vite. Con il termine “stanchezza” Byung-chul Han definisce quel senso di “impotenza” che caratterizza il nostro vivere: siamo diventati multitasking, lo smartphone o I-Phone ci ha reso robotici, estendibili, eppure siamo ancora incapaci di fare più cose contemporaneamente e, soprattutto, non abbiamo il dono dell’ubiquità: confrontarci con i nostri limiti in una società che ormai non ne crea nessuno ci espone a una continua frustrazione. Spesso questa frustrazione degenera nell’ansia, un’espressione che delinea uno stato di fissità, di staticità, in contrapposizione con il dinamismo frenetico del vivere: non a caso si dice comunemente di “stare in ansia”.
La “vacansia” è una diretta conseguenza di questo incubo performativo: abbiamo paura di perderci qualcosa, di essere esclusi dalla comunicazione, dalla partecipazione, dall’interazione. Il salvifico Byung-chul Han ha scritto anche un altro saggio interessante, si intitola Vita contemplativa o dell’inazione (nottetempo, 2023), e ci costringe a rivalutare il nostro concetto di prestazione. Le attività cosiddette passive, come la contemplazione e l’ascolto, sono molto utili e ci offrono la vera comprensione profonda della dimensione dell’esistenza.
Forse saremmo scioccati nella scoperta del valore del “non fare”; ma l’intento di Chan è proprio questo, dimostrarci che la vita accade anche al di fuori dell’agire. Il saggio di Byung-chul Han è da leggere sotto l’ombrellone, magari vista mare, una perfetta lettura curativa per combattere la “vacansia”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Cos’è la “vacansia”? Analisi e significato della parola dell’estate
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