Oggi, 29 aprile, ricorrono la nascita e la morte di Costantino Kavafis. Emise il primo vagito “in una casa della via Cherif” e sempre nella città egiziana sarebbe morto nel giorno del suo settantesimo compleanno. Lo conosciamo come il poeta greco, eppure mai definizione fu più erronea: Kavafis visse gran parte della propria vita in Inghilterra, tanto che parlava il greco con una curiosa inflessione inglese, visitò per la prima volta Atene a trentatré anni, nacque e morì ad Alessandria d’Egitto e, fatto ancor più bizzarro, non conobbe mai la vera fama di letterato, fu un semplice impiegato; eppure lui, forse predicendo il destino, alla voce “professione” sul passaporto aveva fatto scrivere: “poeta”.
In vita pubblicò appena due libri di poesie, tralasciando i suoi versi più famosi. Alla sua morte lasciò un corpus di 154 poesie che furono pubblicate postume da una casa editrice di Alessandria due anni dopo la sua scomparsa, nel 1935.
Costantino Kavafis: la vita
Costantino, o forse dovremmo dire Kostantinos nell’originale greco, è una di quelle figure intellettuali sfuggenti e imprendibili nel quale il tempo della vita sembra scollarsi dal tempo della poesia. Il suo nome ci riconduce nell’immediato ai versi eterni di Itaca o La città, eppure l’esigua autobiografia di Kavafis sembra distaccarsi dall’intellettualismo filosofeggiante delle sue liriche riecheggianti la poesia classica, che ne fu matrice. Costantino Kavafis era degno di una vita eroica e trionfale, dell’esistenza raminga di Ulisse attraverso il Mediterraneo; invece condusse un’esistenza appartata e schiva e la sua fama divenne concreta solo anni dopo la sua dipartita. Era l’ultimo dei nove figli di Petros Kavafis, un imprenditore dell’industria del cotone che lavorava in una filiale estera di Liverpool. Kostantinos nacque ad Alessandria d’Egitto, “in una casa della via Cherif” come scrisse in una nota biografica, ma alla morte del padre si trasferì con la famiglia in Inghilterra dove avrebbe trascorso l’infanzia e gran parte della sua giovinezza. Nel 1885 avrebbe fatto ritorno nella natale Alessandria d’Egitto, città che non avrebbe più abbonato - salvo alcuni sporadici viaggi, poi interrotti per motivi di salute - per il resto della vita. Dopo alcuni trascorsi come agente di borsa e giornalista, a trentatré anni sarebbe stato assunto come impiegato nel Ministero dei Lavori Pubblici, assegnato all’ufficio Irrigazione. Fece quel lavoro per il resto della vita, sino alla pensione, nel 1922; ma in segreto continuava a scrivere versi come se coltivasse una sorta di esistenza parallela nella quale era possibile una fuga dalla realtà. Non è difficile immaginare il Kavafis poeta come uno dei tanti eteronimi di Fernando Pessoa: del resto anche Costantino condusse una grigia esistenza di impiegato, eppure i suoi versi ci restituiscono un’inquietudine tutta moderna. Pensiamo ai versi incomparabili della poesia La città:
Dicesti: Andrò in un’altra terra, su un altro mare.
Ci sarà una città meglio di questa.
Ogni mio sforzo è una condanna scritta;
e il mio cuore è sepolto come un morto.
In questo marasma quanto durerà la mente?
La vera fuga di Kavafis si compie nella poesia che ci restituisce il labirinto dell’esistenza e l’inafferrabilità del destino. La malinconia del canto di Costantino Kavafis è la stessa degli eroi omerici che osservano un orizzonte muto. Nei versi prende vita il tema del nòstos, il termine greco che ha dato origine alla parola “nostalgia”: “nòstos” è il ritorno, inteso proprio come il “desiderio del ritorno”. Da sempre i poemi greci ci narrano il ritorno degli eroi, mentre Kavafis nei suoi versi ci narra un ritorno all’idea di civiltà, declinando il nòstos a un tema chiave della modernità, inteso quindi come “dolore del ritorno” e “impossibilità del desiderio”, poiché il viaggio dell’uomo contemporaneo non conosce approdo, soltanto perdizione. L’autore lo teorizzerà meglio negli straordinari versi di Itaca, dove la patria di Odisseo diventa allegoria della vita.
La scrittrice Marguerite Yourcenar disse che Kavafis era “intriso della sostanza inesauribile del passato”. Non è difficile immaginare Costantino Kavafis come l’imperatore Adriano delle celebri Memorie, avevano molti tratti in comune, in fondo: entrambi si sentivano in qualche modo responsabili della bellezza del mondo. E in entrambi viveva una profonda coscienza della fatalità del destino e della brevità della vita umana. Anche Kavafis nella sua poesia si ancora all’immortalità presunta di templi e colonne, alla tangibilità della Storia che ci restituisce un passato fatto di energia. Una citazione di Memorie di Adriano, capolavoro di Yourcenar, sembra un riflesso del pensiero del poeta greco:
La nostra vita è breve: parliamo continuamente dei secoli che han preceduto il nostro o di quelli che lo seguiranno, come se ci fossero totalmente estranei; li sfioravo, tuttavia, nei miei giochi di pietra: le mura che faccio puntellare sono ancora calde del contatto di corpi scomparsi.
Anche Kavafis, proprio come Adriano, cercava di vincere l’oblio del tempo: i suoi giochi di pietra, però, erano di natura astratta, erano la forza della poesia che lui coltivava nel silenzio, nel suo cantuccio - per dirla con Saba - “solitario e schivo”.
La poetica di Kavafis
La sua prima poesia fu pubblicata nel 1886 su una rivista di Lipsia; alcune sue liriche apparvero anche su riviste italiane nel corso del Novecento e fu elogiato, tra gli altri, da Montale, Ungaretti e Moravia. Era ammirato all’estero, ma subì un vero e proprio ostracismo in patria a causa, pare, della sua omossessualità. Vennero fatte caricature della sua immagine - aveva un volto lungo e affilato contornato da spessi occhiali - e dei suoi versi, spesso imitati e travisati da altri poeti. Era considerato un “anticonformista”, nel senso deteriore del termine. Lui, dal canto suo, condusse una vita appartata e schiva che contribuì ad alimentare il suo mistero soprattutto in tarda età. Un’aura sibillina circonda la figura di Kavafis, oggi considerato il più antico dei poeti moderni.
Nella poesia greca di Costantino Kavafis risorgeva un’identità mitica che apparteneva all’umano dall’inizio dei tempi, si istituiva una sorta di continuità iscindibile tra presente e passato nella Grecia intesa come patria dell’uomo contemporaneo e culla del pensiero occidentale. La poesia di Kavafis evocava tempi remoti eppure, leggendola, pare parli sempre al presente: il suo capolavoro è considerato Itaca, composto nel 1911 all’età di quarantotto anni, in cui inizia il recupero della tradizione ellenistica allontanandosi dal simbolismo.
Costantino Kavafis: la produzione poetica postuma
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Kavafis divenne un poeta noto a livello internazionale grazie a un saggio di E.M. Forster, l’autore di Casa Howard: fu lo scrittore britannico a scoprire la grandezza del poeta greco.
Lui non aveva molta considerazione di sé stesso: alla sua morte vennero trovate dell poesie inedite, settantaquattro, raccolte in una cartellina siglata da una scritta “Not for publication, but may remain here”, non per la pubblicazione ma possono restare qui. Malgrado la ritrosia dava a quei testi un’importanza viscerale, diceva che solo leggendo quelle “poesie sepolte” lo si sarebbe conosciuto davvero.
“Molte le poesie scritte/ nel mio cuore; e quei canti/ sepolti sono a me molto cari.”
I suoi inediti avrebbero visto la luce nel 1968 grazie alla curatela del filologo Ghiorgos Savvidis, oggi sono leggibili in italiano grazie al volume Tutte le poesie, edito da Donzelli a cura di Paola Maria Minucci che ci restituisce l’intero corpus poetico di Kavafis.
Apparentemente Costantino Kavafis scriveva di mondi lontani duemila anni, eppure la sua poesia non ha mai parlato del passato; lui parlava del futuro, con la sicurezza di uno storico e l’ardire di un poeta, per questo il suo tempo non era disposto ad comprenderlo ma ora la contemporaneità riconosce in Kavafis un modello di poetica. Del resto, tutto ciò che possiamo predire è il passato, lo sosteneva anche Vico.
Kavafis morì il 29 aprile 1933, nello stesso giorno del suo settantesimo compleanno, ufficialmente per un tumore alla laringe. Per uno strano scherzo del destino la sua vita si concluse in maniera circolare: Ananke, scrivevano i greci per indicare il concetto di “fatalità”.
La sua personale idea della morte ce l’aveva consegnata in una commovente poesia intitolata Nel mese di Athyr nella quale cercava di decifrare l’iscrizione tombale di epoca bizantina di un giovane cristiano morto ad Alessandria d’Egitto. Kostantinos raccontava di riuscire a decifrare a fatica le parole incise sulla lapide tombale, la considerazione finale del poeta è il vero epitaffio, inciso a imperitura memoria: Eros e Thanatos, amore e morte, la prova che Kavafis aveva fatto propria l’eterna lezione dei greci e, con essa, un’idea di destino.
Poi vengono tre righe molto mutile, appena posso
decifrare le parole NOSTRE L(A)CRIME, e DOLORE
e ancora LACRIME e GLI (AM)ICI IN LUTTO.
Questo Leucio a me pare che fu molto amato.
Nel mese di Athyr Leucio si spense.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Costantino Kavafis: vita e opere del “più antico tra i poeti moderni” che parlava al futuro
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