Bruno Ballardini (Venezia, 1954) ha lavorato come copywriter per grandi multinazionali della pubblicità come BBDO, Saatchi & Saatchi, Young & Rubicam. Nel 1993 ha fondato Nautilus, la prima agenzia pubblicitaria interamente dedicata alla comunicazione sociale e al non profit, realizzando campagne per SOS Razzismo, per il Codacons, la Lega Anti Vivisezione e per Positifs. Successivamente ha concentrato il suo impegno sulla produzione saggistica, filone nel quale ha applicato le teorie del marketing alle filosofie e alle religioni. Riconosciuto come uno dei più apprezzati esperti italiani di marketing e comunicazione strategica, Bruno Ballardini è stato anche docente di Tecniche della Comunicazione Pubblicitaria e di Giornalismo all’Università La Sapienza di Roma e collabora attualmente con «Il Sole 24Ore», «il Fatto Quotidiano» e «Linus».
Tra le sue pubblicazioni di maggior successo ricordiamo:
- La morte della pubblicità (Castelvecchi, 1994; nuova edizione aggiornata Lupetti Editore, 2013);
- Gesù lava più bianco. Ovvero come la Chiesa inventò il marketing (Minimum fax, 2000, tradotto in 11 paesi)
- Gesù e i saldi di fine stagione. Perché la Chiesa non vende più (Piemme, 2011).
Il suo ultimo libro, dedicato al nuovo pontefice, è Leader come Francesco (Piemme, 2014).
Buongiorno Bruno e grazie per il tempo che hai deciso di dedicarci.
- Nel tuo percorso professionale hai lavorato per grandi agenzie di pubblicità e, successivamente, hai dedicato il tuo impegno professionale a campagne per il sociale. Perché chi si occupa di curare una delle principali leve dell’attività di vendita di grandi aziende e multinazionali a un certo punto della sua carriera sceglie di rivolgersi a un settore come il no profit?
Non c’è mai stata una motivazione uguale per tutti. I primi pubblicitari che si sono dedicati al no profit forse l’hanno fatto perché provenendo dalle file della sinistra avevano sempre vissuto con disagio l’essere in un certo senso la punta di diamante del capitalismo e del consumismo e quindi la pubblicità sociale permetteva loro di lavarsi un po’ la coscienza. Altri hanno iniziato perché era un genere nuovo con cui poter fare campagne forti e in piena libertà (cioè senza un briefing, visto che nella maggior parte dei casi prima inventavano la campagna e poi cercavano un’organizzazione no profit a cui farla firmare), quindi un modo fin troppo facile per ottenere premi. In seguito, è diventato un business da prendere in seria considerazione perché molte organizzazioni no profit hanno cominciato perfino a pagare (vedi la Conferenza Episcopale, il WWF ecc). Io nei primi anni ‘90 ho fondato Nautilus, la prima agenzia interamente dedicata al no profit, con l’idea di fare qualcosa di molto diverso dalle campagne di Pubblicità Progresso. Abbiamo inaugurato uno stile aggressivo, quasi cinico, più in linea con le campagne anglosassoni, e per un po’ abbiamo fatto tendenza tanto che erano i “clienti” a chiederci di poter avere una nostra campagna e noi ci permettevamo il lusso di sceglierli. Non erano loro a scegliere noi. Siamo finiti perfino sulle pagine di Advertising Age la più importante rivista internazionale di pubblicità, e abbiamo ovviamente anche vinto premi. Poi in Italia è scoppiata la moda delle campagne sociali e abbiamo smesso. Perché lo facevamo veramente per dare voce a chi non ha voce, per noi era un impegno politico. La moda del sociale ha sputtanato tutto.
- Nella tua successiva attività di saggista appare evidente una grande attenzione per la chiesa cattolica e per la sua attività comunicative. Come è avvenuto il passaggio dalla scrittura pubblicitaria alla scrittura critica e dove nasce questo interesse per la chiesa?
Ne La morte della pubblicità del 1994 (saggio ristampato in edizione aggiornata da Lupetti nel 2013) c’era un paragrafo dedicato alla Chiesa come primo grande “comunicatore”. Da questo è nata l’idea di approfondire l’argomento con un altro saggio. E così ho scritto Gesù lava più bianco.
- Soprattutto in Gesù e i saldi di fine stagione la tua diagnosi dei mali della chiesa era molto incentrata sulla sua attività di marketing e di governance aziendale. È, o è stata, davvero solo un crisi di comunicazione o non si tratta anche di una crisi di contenuti?
Non ho mai inteso sostenere che si sia trattato solo di una “crisi di comunicazione” ma di una vera e propria crisi di Prodotto insieme ad una pericolosa avanzata della concorrenza nel “mercato del Sacro”. Da una parte un Prodotto oggettivamente obsoleto (la Dottrina) e sempre meno capace di rispondere alle nuove istanze dei suoi consumatori. Un Prodotto che andrebbe aggiornato non certo con dei semplici restyling di facciata ma con nuove interpretazioni più adatte alla realtà in cui viviamo oggi. Solo in questo modo si potrà arginare anche la crisi delle vocazioni e la fuga di fedeli verso le nuove religioni che stanno arrivando, molte delle quali sono state dichiaratamente create a tavolino da uomini di marketing, come Happy Science ad esempio. Oppure quelle che utilizzano il multilevel marketing e i “circoli di consumatori” come la Soka Gakkai.
- Puoi presentarci brevemente il tuo ultimo libro – Leader come Francesco – e spiegarci perché, a tuo modo di vedere, quella del nuovo papa è una ricetta vincente per risollevare le sorti della chiesa?
Allora vi racconto direttamente il finale così comprate quello di Giuliano Ferrara per consolarvi, va bene? In sintesi, le conclusioni cui arrivo sono che Francesco ha tutte le qualità per traghettare la Chiesa fuori dalla crisi (qualità che il suo predecessore, molto versato nella teoria ma non nella pratica, non aveva), ma che ci riesca o meno non dipende soltanto da lui. C’è una buona metà del popolo di Dio che ha un’attitudine passiva verso la Chiesa e che non vuole nessuna riforma, nessun cambiamento. È con questa parte della Chiesa che Francesco deve fare i conti. Senza dubbio ha agito fin qui da grande manager, ha perfino distribuito un questionario on line a tutte le diocesi del mondo per comprendere quali siano le nuove esigenze degli stakeholder. Un gesto rivoluzionario, impensabile da parte dei papi precedenti.
- Nella tua attività di saggista, invece, hai iniziato rivolgendo la tua attenzione verso un certo tipo di pubblicità, quella propria dei media monodirezionali e degli spettatori passivi, di cui hai decretato la morte. Ad oggi quali sono le sfide che la rivoluzione digitale sta ponendo alla pubblicità e come, quest’ultima, sta evolvendo di conseguenza?
Cos’è seguito alla caduta dell’Impero? I regni barbarici. Ecco, anche in pubblicità siamo nel bel mezzo di quello che ho definito Media Evo. Un’epoca di transizione in cui non esistono più regole (perlomeno le vecchie regole dell’Impero pubblicitario appena crollato) dove accade di tutto, dalle imboscate per strada (i flashmob) al tentativo di rinsaldare il legame con il popolo e lo spirito di appartenenza sotto l’emblema della propria casata nobiliare (il branding). Ma la verità è che non esiste ancora uno standard stabile nei canali di comunicazione. La televisione è rimasta stabile per una sessantina d’anni fornendo una piattaforma su cui strutturare messaggi secondo precisi principi e con risultati anche verificabili. Oggi gli standard cambiano ogni sei mesi e non si può in nessun modo stabilire una grammatica o dei format di base che siano durevoli. Quindi sarà necessaria per molto tempo una nuova figura di pubblicitario che non sarà specializzata soltanto nei new media e ovviamente nemmeno soltanto negli old media, ma sarà capace di creare di volta in volta delle strategie diverse gestendo quello che chiamo il Media Mix fra tutti i media disponibili. Cioè, in altri termini, creando dei dispositivi cross mediali perfettamente integrati. Questo comporterà la necessità di un aggiornamento costante in termini metodologici come mai è accaduto prima per i pubblicitari.
- Oggi si parla spesso di storytelling e di marketing del racconto come le ultime frontiere della comunicazione (frontiere che tra l’altro sembrano essere frequentate assiduamente anche dalla nuova generazione politica). Possono considerarsi strumenti con cui la pubblicità ritroverà nuovo vigore?
Non dobbiamo lasciarci abbagliare dalle nuove mode che spesso ripropongono cose vecchie soltanto con un nuovo nome. Tecnicamente, la pubblicità ha sempre fatto storytelling, anzi è stata principalmente storytelling. Questa attività consiste nel “creare mondi possibili” e indicare il modo per raggiungerli. L’arte di raccontare storie affascina i politici perché la vedono come un nuovo modo per continuare a raccontare balle dopo che la pubblicità tradizionale non ha dato loro i risultati sperati. Ma i politici non si sono mai resi conto che la pubblicità funziona solo se veicola delle promesse credibili sostenute da una reason why che in politica non esiste. E non basta nemmeno comparire su un’affissione sfoderando il migliore dei sorrisi, come testimonial di se stessi, per ottenere voti. Non funzionerebbe con un prodotto di largo consumo, e chissà perché dovrebbe funzionare per un politico.
- Benjamin nell’Opera d’arte indicò nella riproducibilità tecnica l’elemento che, pur a fronte della perdita dell’unicità e dell’aura, avrebbe permesso una desacralizzazione dell’arte e una potenziale diffusione di massa di essa con la conseguente fruizione da parte di un pubblico sempre maggiore di persone. Una valenza positiva, almeno entro certi termini, che richiama alla mente l’idea di William Bernbach, per cui la pubblicità avrebbe potuto essere anche una risorsa democratica. Credi che, alla luce dei cambiamenti introdotti dalla rivoluzione digitale, si potrebbe ancora (o di nuovo) essere d’accordo?
Cosa significa “democratico”? Se significa dare a chiunque, incondizionatamente, la possibilità di esprimersi allora no, sono contro la democrazia. Ne La morte della pubblicità avevo messo in guardia proprio dal pericolo che i nuovi media costituiscono se non c’è parallelamente una crescita della cultura e della coscienza: diventano potentissimi strumenti per diffondere la stupidità in modo esponenziale. Non a caso il sottotitolo era “La stupidità nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. La possibilità di esprimersi a livello globale che tutti oggi hanno grazie a media che soltanto cento anni fa sarebbero stati inimmaginabili non è un valore politico positivo e nemmeno un bene di per sé. I media sono soltanto canali di comunicazione. Dipende da quello che diffondono. Comincio a pensare che la rivoluzione di Internet abbia portato vantaggi ma anche danni in egual misura, nonostante i profeti del digitale in passato abbiano sostenuto con molta convinzione che la rete avrebbe condotto l’umanità in una nuova fase della civiltà, l’avrebbe “liberata”. È stata l’ultima delle grandi illusioni. Dove c’era barbarie i nuovi media hanno fatto da amplificatore alla barbarie. Dove c’era ignoranza i nuovi media hanno permesso una diffusione ancora più potente dell’ignoranza. Su Internet informazione e disinformazione hanno pari opportunità. E questo sarebbe “democratico”? Senza cultura, senza educazione, senza una crescita reale, che nulla ha a che fare con i media di cui si dispone, perfino il progresso può diventare barbarie.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Dal marketing alla comunicazione della chiesa cattolica: un’intervista a Bruno Ballardini
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