Deserti luoghi. Lettere (1925-1941)
- Autore: Marina Cvetaeva
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Adelphi
“Non amo la vita come tale: la vita per me comincia ad avere senso – cioè ad acquistare significato e peso – solo trasfigurata, e cioè – nell’arte. Se mi prendessero al di là dell’oceano – in paradiso – e m’impedissero di scrivere, io rinuncerei all’oceano e al paradiso.
La cosa in se stessa non mi serve.”
Marina Cvetaeva, lettera del 30 dicembre 1925 ad Anna Antonovna Teskova
Ci sono alcuni autori che smettono di essere una bibliografia e un cognome e divengono inseparabili dalla nostra esperienza, anime affini che ci pare di non aver incontrato per caso e a cui ci leghiamo per sempre. Li indichiamo affettuosamente solo per nome, sono semplicemente Virginia, Emily, Fëdor, Marcel, Simone… e Marina. Anche Marina non ha bisogno di aggiunte, di specificazioni ulteriori, di conferme anagrafiche. Marina, la poetessa dannata, per la sua natura irrequieta d’artista in primo luogo, e poi per il suo nomadismo infinito, la sua insoddisfazione perenne, le sue relazioni fuori del tempo, con Pasternak, Rilke, fatte della miscela struggente che solo si ottiene quando la letteratura e la vita si mescolano fino a diventare indistinguibili. Leggere le sue poesie è esperienza esaltante, inusuale. Marina spezza la lingua, fa risorgere dalle sillabe disarticolate nuove diramazioni dell’essere, apre spiragli sui sensi affioranti dagli abissi dell’anima travagliata e impaziente, sbatte spudorata le porte in faccia alla retorica per esplorare il non detto più scomodo e oscuro.
Tanto apprezzata quanto spesso incompresa e fraintesa, persino dai suoi connazionali in esilio, come lei, in un’Europa che si rinnovava allora attraverso pellegrinaggi spirituali, culturali, appartenenze fatali e tradite, come quella di Rilke alla Russia o la sua alla Germania, Marina dona forse ancor più di sé in queste bellissime lettere, scritte negli anni cruciali delle sue fughe e della maturazione delle sue opere maggiormente dense e innovative. La lettera è rispetto alla poesia un ritratto immediato, più realistico e dettagliato. E lei vi riversa la propria viscerale mancanza di compromessi, quella tensione esistenziale indomita che la spinse a mettersi audacemente contro la critica del tempo, e mai le venne perdonato il coraggio di una lucidità intellettuale troppo sincera.
Attraverso le parole di Marina scopriamo ancora cosa significasse per una donna, ormai in pieno Novecento, riuscire a ritagliarsi, fosse lei pure altissimo poeta, il tempo necessario alla creazione. Paradossale come scrittrici vissute in ambienti e tempi diversi, quali Jane Austen, Emily Dickinson, Anaïs Nin, e appunto Marina, si ritrovino "assorellate" dall’inesausta ricerca di ritagli di tempo finalmente loro, scevri da assillanti pensieri di economia domestica, di un angolo casalingo indisturbato dove poter scrivere, di una stanza tutta per sé, avrebbe detto un giorno Virginia. Quanto è preziosa una pagina, quando trasfigura il tempo sottratto allo scorrere ordinario delle ore in tempo "ritrovato", per dirla con Marcel, e ritrovato definitivamente in una scrittura figlia dello spirito sì, ma anche del sangue, ineluttabile per vocazione. Perché tra chi scrive libri e l’autentico scrittore la differenza è profonda: leggere queste lettere servirà a chiarire l’equivoco per sempre.
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