In un pigro e inerte giorno d’inverno, il 12 gennaio 1918, il poeta Dino Campana venne ricoverato presso l’ospedale psichiatrico di San Salvi a Firenze, prima di essere trasferito nel manicomio di Castelpulci. È esattamente quello il punto in cui, come scrisse Eugenio Montale nell’introduzione ai Canti orfici:
Dino Campana si arresta alle soglie di una porta che non s’apre, o talora, s’apre solo per lui.
Un grande critico letterario del nostro Novecento, Carlo Bo, definì Campana come “l’ultimo grande poeta”, colui che era stato toccato e divorato dal fuoco, per poi entrare nel cuore stesso della notte e non uscirne mai più.
L’oscurità di Dino Campana tuttavia è ciò che ancora ci affascina e ci irretisce, la sua “lucida follia” è un enigma che non saremo mai in grado di risolvere, il dubbio perenne che aleggia attorno alla grazia impalpabile poesia. Non riuscì mai a liberarsi dallo stigma di “poeta pazzo” che si impresse su di lui come un marchio: eppure fu davvero una condanna? Oppure fu la sua benedizione? La sua era forse una forma di genialità creativa?
Sulla pietra tombale di Dino Campana, situata nell’abbazia di San Salvatore a Settimo, si può leggere la seguente iscrizione:
Nel cuore antico/di questa terra/fiorentina che/accolse i suoi/ultimi giorni/la pietà e il/silenzio onorino/colui che fu/voce ai disperati/sogni umani.
Fu voce dei più “disperati sogni umani”. In questa unione inscindibile tra incanto e disperazione, tra fantasia e trauma è custodito il segreto della poetica di Dino Campana, che scrisse sempre per salvarsi - ma non riuscì mai a salvarsi.
Dino Campana: la vita e le opere
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Dino Campana nacque nel 1885 in un paese della provincia fiorentina, Marradi. La follia scorreva nella sua famiglia come sangue nelle vene. Lo zio paterno, Mario, morì in manicomio nel 1902; mentre la madre, detta “Fanny”, aveva l’abitudine di allontanarsi da casa per lunghi periodi, nessuno sapeva dove andasse, pare che fosse affetta da una sorta di mania deambulatoria inspiegabile. In seguito il disturbo di Fanny si trasmise allo stesso Dino. Fu internato per la prima volta in manicomio nel 1906, all’età di ventun anni.
All’epoca Dino, da sempre descritto come un ragazzo scontroso e tuttavia molto sensibile, studiava Chimica all’università di Firenze. Purtroppo sarebbe stato il primo di numerosi ricoveri. La sua vita si spezzò in quel punto: iniziò un’esistenza di vagabondaggi e di fughe, di viaggi interminabili. Non avrebbe mai più ripreso gli studi, eppure non abbandonò mai il sogno di laurearsi. Iniziò a scrivere poesia nel 1912, mentre frequentava i circoli fiorentini legati alle riviste La Voce e Lacerba. L’anno successivo, nel 1913, consegnò il manoscritto della sua prima raccolta Il più lungo giorno nelle mani di Giovanni Papini e Ardengo Soffici. Era la sua unica copia; ma non gli venne mai restituita.
Il manoscritto non venne giudicato degno di essere pubblicato; fu un duro colpo per Campana, ma il vero trauma venne dopo quando Soffici dichiarò di averlo perso. La copia sarebbe stata ritrovata molti anni dopo, nel 1971, proprio dalla figlia di Soffici - in un altro tempo, in cui era ormai troppo tardi.
In quel lontano inizio Novecento, disperato, Dino Campana si immerse in un lavoro febbrile nel tentativo di riscrivere le sue poesia facendo affidamento sulla propria fragile memoria. Da quell’angoscia, da quella follia creativa e visionaria nacque una delle sue più belle raccolte, conosciuta con il titolo I Canti Orfici. Stavolta, imparata la dura lezione, pubblicò il libro a sue spese presso un tipografo di Marradi, il suo paese natale, nel 1914. A quel punto i critici iniziarono ad accorgersi di lui, ma lo bollarono comunque con quell’appellativo ingrato di “poeta pazzo” e non gli concessero di emergere nel mondo letterario. I suoi Canti Orfici sarebbero stati pubblicati dalla casa editrice fiorentina Vallecchi solo nel 1928, pochi anni prima della sua morte: un esordio tardivo per un poeta destinato a perdersi nel buio della sua notte.
Eppure nella sua tormentata vita Dino Campana riuscì a regalare un sorriso. Nel 1916 incontrò Sibilla Aleramo, che sarebbe stata il suo eterno e infinito amore, oggi testimoniato da un prezioso carteggio pubblicato sotto il titolo Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918. Fu un amore bruciante, divorante come tutti gli amori letterari e impossibile. Ciò che sulla carta appariva romantico nella realtà sfociò in una passione ossessiva e violenta.
Infine fu la stessa Aleramo a portare Dino Campana da uno psichiatra, il professor Tanzi. Se lo fece perché mossa da pietà o da un istinto di autodifesa non è dato sapere. Quel che è certo è che dopo i due amanti non si rividero mai più. Dino Campana fu ricoverato in manicomio nel gennaio del 1918 e non vi sarebbe mai uscito, sino alla sua morte, avvenuta nel 1932.
Dino Campana si spense il 1 marzo 1932, in seguito a una violenta febbre dovuta probabilmente alla setticemia. Doveva essersi causato un’infezione ferendosi con il filo spinato nel tentativo di fuggire dal manicomio.
Aveva soli quarantasei anni. Fu sepolto nel cimitero di San Colombano, “entro il recinto dei poveri morti pazzi”. Si sarebbero dovuti attendere anni perché un gruppo di intellettuali decidesse di dare al poeta Dino Campana una sepoltura più degna. Le sue poesie, I Canti Orfici, erano state il suo risarcimento - e forse anche l’ultima traccia o scintilla della sua “lucida follia”.
Qual era la malattia di Dino Campana?
La follia del poeta è, purtroppo, certificata da cartelle e dati clinici. La malattia di cui soffriva Dino Campana era l’ebefrenia, una forma acuta e molto grave di psicosi schizofrenica. Era il suo male dunque a provocare i suoi frequenti sbalzi d’umore e gli imprevedibili attacchi di ira furibonda - che spaventarono la stessa Aleramo. Le cartelle cliniche riportano che durante questi attacchi Campana pronunciava delle frasi sconnesse, incoerenti.
Il concetto di pazzia nel caso di Dino Campana, come accaduto ad altri grandi artisti e letterati, appare indecifrabile. Era genio o follia? Possibile che a una sensibilità così straordinaria si accompagnasse una terribile devastazione mentale?
Oggi possiamo dire che Dino Campana ci ha lasciato delle poesie sublimi, meravigliose; ma a quale prezzo? La follia è forse l’altro lato della medaglia dell’arte?
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La lucida follia del poeta Dino Campana
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Quello in foto non è Dino Campana