Disturbo della quiete pubblica
- Autore: Richard Yates
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: minimum fax
- Anno di pubblicazione: 2004
Inizio con una considerazione. Nel libro di Yates, "Disturbo della salute pubblica", si fa notare il ‘montaggio’. Uso scientemente un termine che rimanda alla tecnica cinematografica perché questo libro, tra le altre cose parla anche di cinema, e perché il protagonista, cinefilo, si segnala per alcune difficoltà di lettura che inevitabilmente lo avvicinano a un tipo di cultura che può essere fruita visivamente; ma anche perché nel romanzo il cinema e i suoi divi vengono tirati spesso in ballo, o perché il romanzo racconta la storia di un uomo che tenta di diventare produttore di un film basato su una vicenda che lo ha visto personalmente coinvolto. Ed ecco, che questo romanzo che parla anche di cinema, adotta il linguaggio del cinema, il modo con cui esso è solito raccontare le sue storie. La mimetizzazione è davvero sorprendente. Il montaggio - nozione che in narratologia risulta sovrapponibile a quella di tempo narrativo - nel romanzo di Yates si caratterizza per un ritmo tagliato e veloce, oltreché per la sobrietà e la concisione del messaggio. Il narratore adotta, a seconda della situazione, il punto di vista dell’uno o dell’altro personaggio; modificando repentinamente l’angolatura con cui le varie scene vengono osservate, egli spiazza e confonde il nostro punto di osservazione e conseguentemente il nostro giudizio di lettori. Ma esiste anche un altro aspetto che avvicina questa narrazione al cinema. La penetrazione psicologica dei personaggi, e soprattutto del protagonista, non avviene mercé joyciani monologhi interiori, o straripanti stream of consciousness, al contrario, come nel cinema, sono i comportamenti esteriori, le abitudini, i gesti a fornirci indicazioni preziose sulla psicologia, sull’intimità delle persone. La corrente letteraria chiamata behaviorista che ha avuto tra i suoi geni più rappresentativi scrittori come Hemingway, Steinbeck contribuì a muovere anche la letteratura verso approdi cinematografici. Senza dubbio questa spinta arriva fino a Yates, che non solo biograficamente ha intrattenuto sporadici rapporti con il cinema scrivendo qualche sceneggiatura, e offrendo almeno un romanzo, Revolutionary road, alla translitterazione cinematografica, a conferma della quasi perfetta traducibilità delle sue trame in quel medium. Sono appunti i gesti e le situazioni da cui essi scaturiscono a rendere così viva e coinvolgente la scrittura di Yates. Gesti che rivelano in profondità e meglio di capziose ricognizioni psicologiche i caratteri dei personaggi. Quella di Yates è una narrazione visiva e ritmica al contempo, e nella quale i gesti contano come vere e proprie epifanie del vero. Quanto per esempio, John Wilder, il protagonista della storia, di professione pubblicitario con qualche turba psicotica di cui l’alcol è spesso l’innesco, decide di incontrarsi in un bar con un guru della alcolisti anonimi – la speranza è quella di riuscire a smettere – il narratore esterno racconta l’incontro attraverso i gesti dei due personaggi. Si sofferma sulla stretta di mano ‘vigorosa’ con la quale Bill Costello sembra quasi ‘dimostrargli quanto stare alla larga dagli alcolici poteva migliorare la presa’. Perfino la postura con cui questi fronteggia Wilder con i ‘gomiti puntati sul tavolino di plastica’; e perché no, la schiettezza che traspare ‘dal suo gran sorriso dalla candida dentiera’, ben esemplificano la posizione dei rispettivi caratteri calati in una situazione viva e memorabile. Il narratore semmai puntualizza, ben attento a restare sempre all’esterno, descrittivo ma mai introspettivo. Anche il sottotono ironico e umoristico (non senza amarezza) scaturisce spesso direttamente dalle contingenze del momento e del caso. La maniera diretta e tutta visiva con cui la narrativa yatesiana viene disposta, non ci esime dal non cogliere la complessità delle trame e degli incastri, la sottigliezza psicologica e la sensibilità dello sguardo narrativo verso ciò che di più fragile, debole e fatuo vi è nell’uomo. A riprova di questa sensibilità per la parte dolente dell’umanità, una dichiarazione dello stesso Yates che afferma:
“Credo che le persone di successo non mi interessino molto. Credo che mi interessino di più i falliti”.
E in effetti con grande compassione e empatia Yates racconta spesso le vicende sfortunate di antieroi malati, malinconici, perfino violenti. Personaggi che, molto simili a tutti noi, vivono di illusioni che la vita continuamente frustra e conculca. Dice bene A.M. Homes nella prefazione all’edizione della Minimum Fax, a proposito della frustrazione prodotta da una società altamente competitiva ma in fondo mediocre:
“Questo ha a che fare con la debolezza, la vulnerabilità e le illusioni che ci si crea per riuscire a sopravvivere, le illusioni di essere in qualche modo diversi dal resto dell’umanità, in qualche modo migliori: illusioni che possono soltanto finire in tragedia”.
E appunto sta qui il nocciolo della ‘tragedia’ di Wilder: le sue illusioni, con le quali tenta di nascondere le molte frustrazioni di una vita adulta, gli saranno fatali, l’autoinganno finirà per trasformarsi in schizofrenia. Alla fine di questo percorso di distruzione, che ricorda dinamiche e meccanismi in perdita nelle esistenze raccontate da un altro grande narratore americano, Saul Bellow, Wilder resterà confinato in un manicomio. Il narratore visivo a questo punto lascia l’angusta stanza del manicomio per mostrare ciò che accade alla vita dopo che qualcuno l’ha lasciata, o ne è stato violentemente espulso. La vita continua, spesso beffardamente; continua senza di noi, e dietro di noi si richiude senza troppi drammi e patemi. Tutto è destinato a proseguire. Ma questa verità è fastidiosa e sgradevole da accettare, anche da semplici lettori. È allora con nostalgia e dispetto che seguiamo la storia della ex moglie di Wilder che nel frattempo si è spostata con il suo miglior amico e che durante un viaggio in California farà visita al povero Wilder recluso nell’ospedale psichiatrico senza più alcuna possibilità di recuperare ciò che ha perduto. O l’altra liasion – anche questa nemestica e parallela – quella della bella e giovane Pamela, l’ex ragazza di Wilder, quella che ne aveva fomentate le mai sopite illusioni; Pamela con la quale lui era partito per la California lasciando una moglie e il figlio adolescente; Pamela che ‘nel frattempo’ si è rimessa con ‘Chet’, scrittore di successo redento dai suoi problemi di alcol (quasi una nemesi in positivo di Wilder), con il quale convive felicemente in California. Ma ecco cosa c’è dentro la testa di Pamela in occasione del suo definitivo addio a Wilder, nell’ospedale psichiatrico:
“Quando Wilder ebbe le mani libere, lei gli si sedette accanto e gli massaggiò dolcemente i polsi chiazzati di rosa. Sperava di farlo sentire meglio, ma al tempo stesso non riusciva a non provare una leggera repulsione al contatto della sua carne. Lo guardò in faccia, ma non servì a niente. Era pulito e sbarbato da poco, ma gli occhi scintillanti e sporgenti parevano quelli di… be’, di un pazzo… e nello sforzo di cantare un rivolo di saliva gli era colato da un angolo della bocca privo di espressione. Era mai possibile che avesse amato quell’uomo?”.
Non c’è nulla di consolatorio in questo finale che assomiglia, senza infingimenti e orpelli, all’esistenza dura e cruda.
Disturbo della quiete pubblica
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