Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno
- Autore: Adriana Cavarero
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Castelvecchi
- Anno di pubblicazione: 2023
Tutto ha inizio da un assunto ineludibile, che non può essere smentito: “ogni essere umano è nato da donna”. Non possiamo prescindere dalla visione della gravidanza come esperienza estrema ed esclusivamente “femminile”: c’è un legame tra la donna, in quanto essere femmineo, e l’origine della vita umana.
La filosofa Adriana Cavarero parte da questa concezione nel suo ultimo saggio, Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno (Castelvecchi, 2023), per mettere in discussione qualsiasi idea retorica sulla maternità. Il titolo non a caso, fortemente di impatto e dal valore quasi immaginifico, deriva da una scena delle Baccanti di Euripide, in cui le donne, colte da una frenesia estatica ispirata da Dioniso, allattano cerbiatti e lupacchiotti selvatici nel folto del bosco, istituendo una comunione profonda con la natura e, di conseguenza, con il mistero della vita.
Si instaura quindi una continuità tra la donna e l’esuberanza nutritiva della physis, della natura intesa come entità ordinatrice del cosmo, in una catena che lega vivente a vivente senza distinzione di sorta. In questa scena è tuttavia contenuto al contempo qualcosa di osceno, di oscuro, di primordiale, come ben dimostra anche il quadro di Eugéne Grasset, Tre donne e tre lupi (1862), posto in copertina, il quale ci rivela una foresta orrorifica con lupi dagli occhi gialli e donne in volo simili a streghe, in una continuità che sembra sancire il legame occulto tra arte e magia. Il tratto simbolico dell’arte - e dunque anche del mito - è ciò di cui si serve la stessa Cavarero per esplorare il lato “tremendo” della maternità.
Le narrazioni contemporanee stanno sdoganando il materno dalle sue pretese idilliache, in particolare dall’immagine iconica della Madonna col bambino che ha segnato la cultura occidentale: nel libro la filosofa a tal proposito cita Elena Ferrante e Annie Ernaux, ma sulla stessa lunghezza d’onda potremmo anche nominare Rachel Cusk, Sheila Heti, Guadalupe Nettel.
La verità letteraria della maternità è “ancora tutta da esplorare”, scrive Ferrante, citata da Cavarero proprio nel primo capitolo del libro per rivendicare che la maternità è una questione complessa da analizzare in tutte le sue sfumature e implicazioni. A lungo il materno è stato un concetto inviso e osteggiato dalle femministe, in particolare da Simone de Beauvoir che ne Il secondo sesso scriveva sprezzante che la disgrazia della donna è quella di “essere biologicamente deputata a ripetere la vita”. La maternità dalle femministe veniva vista come una trappola, ciò che negava alla donna la libertà soggettiva propria dello statuto ontologico di persona. Adriana Cavarero invece presenta una visione che smentisce il pensiero beauvoriano: quella dell’Ipermaterno, ovvero della maternità come risorsa e forza esclusivamente femminile, mettendone in luce la potenza generativa persino oscura, proprio perché specifica. Per farlo svincola la maternità dal suo aspetto puramente biologico e la pone sotto la lente del mito: perché il punto essenziale non è stabilire se le donne debbano o no essere madri, ma concentrarci sul fatto che ogni essere umano è nato da una donna.
Seguendo questo ragionamento Cavarero libera la maternità dal suo puro significato biologico e la orienta a una riflessione di stampo filosofico, a partire dalle rappresentazioni arcaiche della femminilità che legavano l’organo sessuale femminile all’origine e veneravano divinità prettamente femminili come garanzia di eterna generazione e, dunque, di vita. L’immaginario arcaico conserva ancora la traccia di una complicità originaria tra corpo femmineo e vita-zoe. E se Dio fosse donna?, la domanda non viene posta, ma resta implicita e ci rivela il condizionamento culturale operato dalla religione cattolica sulla nostra attuale visione del materno, come sacrificio e colpa. Nel testo Donne che allattano cuccioli di lupo si istituisce un legame ancestrale tra la donna e la zoe, la vita biologica, il principio vitale, che si differenzia secondo i greci dal concetto di bios, ovvero “esistenza” che delinea la vita più propriamente umana.
La demonizzazione femminista della maternità è da leggersi, in quest’ottica, come conseguenza di una società patriarcale che ha a lungo sottomesso la donna relegandola alla sfera domestica, a un ruolo di accudimento. Cavarero contesta l’affermazione di Beauvoir secondo cui la donna la donna deve liberarsi della propria funzione riproduttiva per realizzarsi come soggetto libero. È questo il punto focale dell’intero saggio: svincolare la maternità dall’essere puro destino biologico, servendosi del mito (le Baccanti di Euripide che allattano lupi rappresentano una chiave di lettura importante) per recuperare l’esperienza del materno come atto d’amore, di rigenerazione, di armonia profonda tra l’essere la natura. La superbia, la hybris, osserva Cavarero citando Hannah Arendt, non appartiene al femminile, ma è propria del maschile: perché il corpo dell’uomo rimane intatto, ha una parvenza di invulnerabilità, mentre il corpo della donna è portato alla scissione, alla rottura e, infine, allo sdoppiamento. Questa rottura, tuttavia, non rappresenta una debolezza o una menomazione da intendersi quale mancanza: è, al contrario, la sua vera forza, il suo vanto. Lo stesso Platone coglieva nella maternità qualcosa di divino, perché è in grado di rendere immortale ciò che è, per sua essenza, mortale. Recuperare dunque “l’intreccio tra parto e physis, tra natura e zoe” significa esplorare il potere “tremendo della maternità” manifesto nelle Baccanti che, invasate da Dioniso, diventano madri mitiche del Creato.
La maternità, nel suo vincolo materico con la natura (intesa come physis, crescita e nutrizione), pare rifondare una nuova ecologia vitale.
Che sia l’indistinzione/fusione/assimilazione fra umano e animale a caratterizzare l’esperienza di questo corpo fa parte del quadro ed enfatizza la figura di una maternità senza limiti, ossia di un’ipermaternità sospinta nell’oscurità dei recessi viscerali che la annodano alla continuità esuberante della vita.
In questo senso è interessante ricondurre la visione del materno a quella che Arendt chiama la necessità della natura, intesa come “nodo biologico che stringe tutti i corpi”, dunque non è ostacolo alla libertà, ma un veicolo di generazione che va oltre la limitata e ristretta visione antropocentrica del mondo.
L’Ipermaterno viene descritto come una forza e una chiave di lettura interessante del contemporaneo, invitandoci a una nuova visione della maternità che tenga conto della sua complessità e della sua forza oscura. Non a caso i miti spesso narravano le punizioni di donne madri, come Niobe che, nelle Metamorfosi di Ovidio, perde i suoi numerosi figli e rimane pietrificata dal dolore per aver sfidato la Dea Latona vantandosi della propria prole. Questo potere esclusivo della donna doveva essere ridimensionato dagli uomini che a lungo lo hanno narrato seguendo una visione che potesse restringerlo, condannarlo o, addirittura, punirlo come atto di superbia. Le stesse Baccanti di Euripide, non a caso, diventano materia esemplare di una tragedia che vede le donne protagoniste: un dramma che si apre con le doglie di un parto e si conclude, nota l’autrice, con “l’assassinio di una partoriente”.
Adriana Cavarero afferma il vincolo primigenio che lega natalità e maternità, “siamo tutte creature nate da donna”, liberando la donna dalle censure e dalle mistificazioni riguardanti il tema - ancora spinoso - del materno. La maternità non definisce la donna, né ne rappresenta il necessario completamento: è una scelta, non dobbiamo mai dimenticarci di ribadirlo, è una scelta che però mette le donne al centro.
È un nodo centrale e, per certi versi, ancora poco esplorato dalle narrazioni contemporanee: la filosofa decide di addentrarsi nel buio, liberando la maternità dalla pretesa mistica del “sacro” e anche dall’identificazione pretestuosa donna-madre, analizzando il materno come forza oscura che lega un corpo generante - anche solo in potenza - con la materia vivente.
Da questo processo ha origine la vita, intesa come esperienza individuale, unica, irripetibile e anche inestinguibile. Recuperando sin dal principio le narrazioni di Elena Ferrante e di Annie Ernaux che, come nota l’autrice, raccontano la maternità come esperienza, anche abortiva, non come desiderio né obbligo sociale, Cavarero ci offre una preziosa disamina di questo concetto prettamente femminile inteso come “travaglio dell’origine”.
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