Dublino. La città nel tempo
- Autore: John Banville
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Guanda
- Anno di pubblicazione: 2023
Un libro che ho atteso con trepidazione di uno degli autori che più ho amato e amo, su di una città che mi è nel cuore, illustrato con commoventi fotografie, le più in bianco e nero, del fotografo e regista irlandese di fama internazionale Paul Joyce, pronipote di James.
Dublino. La città nel tempo (Guanda, 2023, traduzione di Irene Abigail Piccinini) è un libro romantico, suggestivo, coinvolgente nel quale si vede la vita delle cose, nei magnifici portali georgiani e nei verdeggianti giardini pubblici. Il grande John Banville, che appare in copertina di spalle, una presenza discreta, nato a Wexford e vissuto a Dublino, mi accompagna per strade che ho attraversato, in luoghi dell’anima dove sono tornata più volte, raccontandomi della sua vita, dei viaggi in treno da bambino da Wexford a Dublino negli anni Cinquanta, della storia della città grigia e brutta e al tempo afflitta dalla povertà.
Quand’è che il passato diventa passato? Il presente è dove viviamo, mentre il passato è dove sogniamo.
Molto di più della nostalgia e dei rimpianti, il libro narra un’esplorazione della memoria sul tempo inesorabile, dei ricordi del passato e il racconto della città che, grigia e povera, non pregiudicò il suo pensiero romantico.
Per il piccolo John Banville, Dublino rappresentava un luogo di incanto e desideri, un luogo che diverrà fondamentale per la formazione dello scrittore. Dublino. La città nel tempo è una passeggiata nel passato di Banville, accompagnato dal suo amico Harry che gli farà scoprire una città poco conosciuta. Si trasferì a Dublino nei primi anni Sessanta, come era successo ad altri scrittori del Wexford, Colm Toibin, Billy Roche, Eoin Colfer, andando via scuotendo via la polvere di Wexford dai calcagni.
“Dublino la più raffinata città neoclassica d’Europa”, eppure Banville non ne ha mai scritto nei suoi romanzi. Non voleva fare come Joyce utilizzare la città per uno scopo letterario, o come Kafka con la lettera K; solo la sua ombra oscura, Benjamin Black, nei noir l’ha voluta raccontare.
Si pentirà di essere stato ottuso e snob e di non averla conosciuto a fondo; dei quartieri medioevali intorno alla cattedrale di San Patrizio di cui fu decano Swift, il fiume Liffey, dei dintorni di Howth con i villaggi di pescatori, o la Dublino georgiana con le case di mattoni rossi. In questo suo ultimo lavoro Banville omaggia la città che lo ha accolto e meravigliato sempre.
“Mi sento come Odisseo tornato finalmente a casa a Itaca. Mi sento, mi sento a casa.“
L’autore ricorda O’ Connell Street nel suo massimo splendore negli anni Cinquanta, punto d’incontro per chi si recasse in centro, con nel mezzo una colonna di granito eretta come monumento alla vittoria di Lord Nelson a Trafalgar, irritante per molti irlandesi, che venne fatto saltare in aria dall’IRA, provocando pochi danni agli edifici vicini. E le due gelaterie con vere delizie per il palato e un jukebox con le canzoni dei cantanti del momento: Perry Como, Frank Sinatra, Nat King Cole.
Quando cominciò a vivere a Dublino più che ammirarne l’archittetura era attratto dai parchi cittadini, e in particolare Iveagh Gardens con grotte, fontane, giardini rocciosi e un labirinto, una cosa davvero meravigliosa, scrive, come uscito da un racconto di meraviglie di Borges.
La Westland Row risalente all’anno 1776 che corre lungo la parte orientale del Trinity College, lungo la quale si trova la casa in stile georgiana dove ha vissuto Oscar Wilde, dove ancora c’è il pub Kennedys, frequentato a suo tempo dallo studente Samuel Beckett. Il Gran Canal dove amava sostare sulle panchine il poeta Patrick Kavanagh: era il suo posto del cuore, lo aiutò nella convalescenza riportandolo alla poesia.
Ne possiede oggi la primazia con due sedili dedicati alla sua memoria. Sulla spiaggia di Sandymount dove Stephen Dedalus camminò cercando di decifrare i segni di tutte le cose e la Killiney Bay, a sud di Dublino, paragonata per la sua bellezza e grandezza al golfo di Napoli. E in Upper Mount Street, dove il giovane Banville visse, scriveva, sognava e sperava; in Dove è sempre notte ricorderà con molta fantasia l’appartamento a Mount Street. Vi era nello stesso stabile un’inquilina illustre, la figlia di Yeats, Anne, timida donna di mezza età, pittrice, la cui stranezza era che si facesse mandare il lievito di birra ogni settimana, non per farne pane, ma per produrre birra in una delle stanze del suo appartamento.
Banville era arrivato in città quando “i bevitori letterari” appena si reggevano sulle loro gambe, Brendan Behan vacillava e Patrick Kavanagh ormai sofferente rimaneva seduto per ore sui gradini di casa, mentre Flann O’ Brien lo incontrò una sola sera che barcollava in Grafton Street. Come gli confidò una sua amica americana:
L’alcol è per gli irlandesi quello che il sole è per i popoli latini del Sud.
Guiness a fiumi, whiskey Jameson, ma mai scotch. Le donne non erano ammesse all’epoca in tutti i pub, e in quelli dove entravano non potevano ordinare una pinta, solo due mezze contemporaneamente, ma non una pinta. Si era repressi, ricorda l’autore, sotto un regime tirannico di regole, come quello religioso e si cercavano piccoli piaceri in piccole cose, il fumo, la birra.
È stato scritto molto a proposito della Dublino letteraria nel periodo che va dalla Seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni Sessanta, quando più o meno si ridusse tutto in polvere con la morte, in rapida sequenza, di tre dei più celebri personaggi della citta: Brendan Behan, Flann O’ Brien e Patrick Kavanagh.
L’alternativa al pub era per il giovane Banville il cinema: nel primo cinema d’essai, l’Astor, vide Ladri di biciclette di De Sica. Un ragazzo provinciale che viveva la sua fanciullezza andando alle proiezioni pomeridiane dei film della Nouvelle Vague di Bergman, Fellini, Truffaut, Bunuel, Godard, e il suo preferito era Michelangelo Antonioni, magico, con la bellezza scultorea di Monica Vitti.
Nel bene e nel male, come scrittore sono e sono sempre stato soprattutto interessato a non ciò che le persone fanno, ma a ciò che sono. L’arte è uno sforzo costante di andare al di là del mero affacendarsi quotidiano dell’umanità per arrivare, o perlomeno per avvicinarsi il più possibile all’essenza di quello che è, semplicemente, l’essere.
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