È da lì che viene la luce
- Autore: Emanuela E. Abbadessa
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Piemme
- Anno di pubblicazione: 2019
“È da lì che viene la luce” (Piemme 2019) è il nuovo romanzo della scrittrice e saggista siciliana Emanuela Ersilia Abbadessa, nata a Catania, liberamente ispirato alla storia del fotografo tedesco Wilhelm von Glöden (Wismar, 16 settembre 1856-Taormina, 16 febbraio 1931), già autrice di “Capo Scirocco” (Rizzoli, 2013, Premio Rapallo-Carige 2013 per la Donna Scrittrice, Premio Letterario Internazionale Isola d’Elba Raffaello Brignetti) e “Fiammetta” (Rizzoli, 2016).
La luce era tutto, lo ripeteva spesso. Era il principio che gli permetteva di fotografare e persino di vivere.
Nel 1932, undicesimo anno dell’Era Fascista, il barone Ludwig von Trier, primogenito di una casata che vantava un albero genealogico con svariati militari distintisi in un gran numero di battaglie, aveva deciso di trasferirsi a vivere in Sicilia, a Taormina, per motivi di salute. Ludwig, alto, esangue, magrissimo, si faceva notare non solo per il suo aspetto fisico, ma soprattutto perché portava sempre con sé una scatola, un oggetto misterioso per la maggior parte della popolazione locale. Quella scatola non era altro che una macchina fotografica, una Rolleiflex, che il barone usava come fosse stata una matita. Sì, perché la fotografia per von Trier era disegno, le fotografie che scattava (soprattutto scene campestri) esistevano già nell’animo del suo creatore, il quale nella sua mente originale già le aveva immaginate e tratteggiate.
Il barone Ludwig von Trier era giunto in una Sicilia, dove era ancora forte l’eredità dei greci, per immortalare con la sua Rolleiflex volti degni di nota. Una terra antica, dove lo spettacolo della natura è abbagliante e predomina un orizzonte di mare e di rocce coperte di agavi e fichi d’India. Lo sguardo acuto di Ludwig notava che nonostante si proclamasse a Roma con orgoglio che l’Italia navigava nel benessere, la popolazione locale aveva la pancia vuota e vestiva di stracci. Da qui l’idea del barone di raccontare la condizione di un’intera terra, la Sicilia, mediante fotografie capaci di descrivere:
una storia di gente qualunque, che dava figli alla patria senza poi sapere come sfamarli.
Sebastiano Caruso, un giovane uomo dall’aspetto furbo di un personaggio caravaggesco, era rimasto colpito dal lavoro del tedesco e Ludwig aveva offerto a Sebastiano di fargli da modello e assistente. Da quell’istante la vita di Sebastiano Caruso, orfano di padre, una madre remissiva e un fratello maggiore, Alfio, fervente fascista, sarebbe cambiata per sempre. “Educare Caruso alla bellezza e riversare in lui quanto sapeva dell’arte”, era il compito che il barone si era prefisso, sapendo perfettamente, riferendosi al suo connazionale Goethe (“Wo viel Licht ist, ist auch viel Schatten”), che “Dove c’è molta luce c’è anche molta ombra”. E questo il tedesco l’avrebbe presto sperimentato sulla propria pelle.
Nel romanzo dedicato “A mia madre e a mio padre”, l’autrice affronta un tema attualissimo: l’odio per il diverso, per lo straniero, sempre alimentato dall’ignoranza e dalla maleducazione. Emblematica la storia del barone Ludwig von Trier, fotografo per passione e per diletto, sicuramente “omosessuale inconsapevole” che aveva deciso di stabilirsi nell’Italia fascista che gli omosessuali li spediva al confino perché considerati “anormali”. Il romanzo di Emanuela Abbadessa, come i precedenti della brava scrittrice, è pervaso da una raffinata sensualità, acerba e pericolosa come quella di Agata Costa, elegante e matura come quella di Elena Amato, governante saggia e sollecita di Ludwig, bionda con gli occhi azzurri perché di discendenza normanna, soprannominata dai paesani “’a tidisca”, che fa comprendere al padrone come l’amore sia sempre un bene prezioso. Mai “né darlo per scontato, né offenderlo”.
È da lì che viene la luce
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