Eravamo ebrei. Questa era la nostra unica colpa
- Autore: Alberto Mieli
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2016
Ogni anno diminuiscono per ragioni anagrafiche i testimoni della Shoah. Tra gli ultimi sopravvissuti romani alla deportazione Alberto Mieli, un vecchio signore, padre, nonno, bisnonno, che solo dopo molti anni dalle tragiche vicende che lo hanno visto deportato, torturato, affamato, ferito nel corpo e soprattutto nell’anima, ha deciso di dedicare una sorta di seconda vita alla testimonianza nelle scuole e nelle università non solo in Italia.
Le parole importanti raccolte in questo libro originale, pur nell’ambito di una ormai consolidata letteratura memorialistica sul tema della Shoah, sono affidate dal testimone a sua nipote Ester, una donna adulta che, dopo aver avuto da bambina un rapporto difficile con un nonno che le sembrava lontano, incapace di giochi, baci e carezze, ha poi razionalizzato, capito, accettato ed ha riscoperto nel nonno un patrimonio di ricordi da conservare e da condividere.
“Eravamo ebrei. Questa era la nostra unica colpa” (Marsilio, 2016) è preceduto da un breve intervento di Padre Federico Lombardi, il Gesuita preposto alla comunicazione della Santa Sede con il pubblico, che si chiede:
“Come è possibile che Mieli ci presenti oggi una memoria che è allo stesso tempo terribile nel suo semplice realismo , ma anche del tutto priva di sentimenti di odio e di vendetta?.....Il racconto di Mieli mi pare straordinario, miracoloso, e mi pare un dono preziosissimo di sapienza e speranza per il nostro tempo”
Alberto Mieli racconta con parole semplici la sua infanzia in famiglia, genitori e ben otto figli, nella Roma che
“Prima dell’inizio della guerra la ricordo come una città splendida, sicuramente più bella di quanto non lo sia ora……Prima del fascismo a Roma si viveva bene”
Con l’arrivo delle leggi antiebraiche del 1938, leggi razziali firmate dal re che l’autore preferisce chiamare razziste, tutto cambia rapidamente in paggio: i bambini non vanno più a scuola, derisi e beffeggiati, il padre funzionario al Dazio viene licenziato, comincia la lotta per la sopravvivenza, la ricerca sempre più spasmodica di qualcosa da mangiare. Il ragazzo troverà ospitalità presso parenti, che gli assicurano una minestra calda, e poi cercherà lavoretti che gli consentano di aiutare a casa. Ma la storia drammatica di Roma si avvia al momento più oscuro: si salva con la sua famiglia dalla razzia del 16 ottobre, rifugiati nel magazzino di un fruttivendolo che aveva rischiato la vita per ospitarli, un “giusto” che Mieli ricorda con riconoscenza, ma poi durante una retata viene catturato, portato a Regina Coeli perché nelle sue tasche trovano francobolli inneggianti alla Resistenza, torturato malgrado i suoi appena diciassette anni, infine inviato dapprima a Fossoli, poi in un treno piombato ad Auschwitz. Le descrizioni delle condizioni degli internati, i riti delle docce, delle camere a gas, dei Kommando, degli Appel a venti gradi sotto zero, delle morti continue per fame, per congelamento, per malattia, sono quelle che ormai conosciamo dalla diverse testimonianze a partire da Primo Levi. La particolarità delle pagine di Alberto Mieli è il continuo mescolare nei racconti della incredibile ferocia e disumanità degli aguzzini nazisti parole di speranza, voglia di dialogare con i giovani d’oggi perché siano sentinelle, non si fermino alla superficie di quanto vedono o sentono raccontare, capiscano che la diversità allora metteva paura come spesso avviene anche oggi e capire il passato, per quanto orribile, consente di creare anticorpi per il presente.
L’unicità della Shoah, spiega Mieli, è che mentre in altri genocidi, per esempio in Serbia, si fronteggiavano due eserciti combattenti contrapposti, armati e violenti, nei lager nazisti i deportati erano inermi, disperati, affamati, ridotti a bestie con un numero tatuato sul braccio, unico segno di identificazione.
Per una sorta di miracolo il diciottenne Alberto Mieli, numero 180060, kg. 29,900, riuscirà a sopravvivere ad Auschwitz, a Gusen, a Mauthausen, anche alla terribile Marcia della morte e tornerà a casa, a Roma, nel maggio del 1945. Per molti anni non parlerà della sua odissea, come molti altri testimoni dell’indicibile. Alcune atrocità rimangono nel segreto del suo cuore impossibili ad essere raccontate.
Non accetterà la vendetta, come invece avevano progettato due ex deportati olandesi, che dopo la fine della guerra avevano rintracciato il persecutore della loro sorella e per poco non ne avevano ucciso i due bambini innocenti: una storia esemplare quella di Mieli, un altro modo di raccontare lo sterminio, una pagina importante che colma anche qualche vuoto sull’importante esperienza del “dopo”.
Eravamo ebrei. Questa era la nostra unica colpa
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