Enrico Macioci, classe 1975, di origini aquilane, è tornato quest’anno in libreria con la sua terza prova, Breve storia del talento (Mondadori, 2015): un romanzo asciutto, audace ed essenziale, che si immerge pienamente nell’essenza della vita ed in particolare in quella fetta di esistenza che governata dall’adolescenza.
Un’età difficile, truce a suo modo, certamente misteriosa, in cui si stagliano, nitide, le figure dei personaggi del romanzo: dalla voce narrante del libro, un tredicenne alla ricerca del proprio talento, passando per Michele, la personificazione stessa del Talentoche si riverbera nel gioco del calcio, fino ad arrivare a Padre Lucky, uno degli individui più singolari di questa storia così ricca, pur nella sua brevità.
Insieme ad Enrico Macioci abbiamo fatto una chiacchierata su cosa rappresenti realmente il suo Breve storia del talento e su quanto sia dolorosa quell’epoca della vita che tutti noi ricordiamo nitidamente, proprio per la sua forza intrinseca.
- Enrico, da dove nasce l’idea di questo libro, così diverso rispetto al precedente La dissoluzione familiare, e come mai hai voluto focalizzare l’attenzione su un’età della vita di per sé molto crudele, come l’adolescenza?
Lessi un libro che mi piacque molto, Questo bacio vada al mondo intero di Colum McCann, e mi venne voglia di scrivere qualcosa con quel tono lì, che è nostalgico, malinconico e a tratti struggente. Dove volgersi per fare ciò? Ma all’adolescenza! La crudeltà venne da sé perché, come giustamente affermi tu, l’adolescenza è un’età crudele. Forse lo sono tutte ma l’adolescenza lo è in maniera più sfacciata, non cerca (né trova) mediazioni di sorta. Ti arriva in faccia come una sberla.
- Due sono le figure attorno a cui ruota essenzialmente il romanzo, nonostante i personaggi siano diversi e dalle molteplici sfaccettature. Abbiamo il protagonista, nonché voce narrante del libro, e Michele, il ragazzo prodigio nel gioco del calcio. Michele sembra essere l’incarnazione stessa del Talento, colui attraverso il quale anche gli altri prendono coscienza delle loro qualità (“Io sono ciò che sono per merito e per colpa tua (…) e per merito e per colpa del giorno in cui tu dimostrasti a te stesso, a me e a tutti chi era il migliore”). Eppure proprio Michele non riesce a fare gol per sé, non riesce a fare gol nella porta della sua vita. Perché?
Il talento – per quanto grande sia – deve misurarsi col carattere e col destino. Io vedo Michele un po’ come Rimbaud, che rinuncia alla poesia diciannovenne nonostante sia (o proprio perché è!) il più dotato di tutti. E poi cosa significa fare gol? Se significa, come spesso usiamo pensare, ottenere un certo successo e scalare qualche gradino in società allora sì, Michele tira fuori, manca la porta. Del resto Michele sembra non realizzare sé stesso nemmeno intimamente ma io narratore non lo giudico, e sai perché? Perché io in realtà non so un fico secco di lui. I narratori ne sanno poco delle loro creazioni, per quanto mi riguarda; e i personaggi, al pari delle persone, non li conosci mai davvero. Credo sia meglio così; piuttosto che dare risposte i narratori devono porre domande
- Scrivi: “Il calcio, come la vita, è una battaglia, perciò ci piace, il calcio è la possibilità di morire tante volte in vita”. Il calcio, appunto, in questo romanzo appare quasi come metafora della vita stessa, a dire che solo chi ha talento riesce a tenere la palla, solo chi ha talento riesce a tenere testa alla vita e quindi a fare gol. Il pallone è la traiettoria della vita e solo noi abbiamo il potere di condurla da una parte o dall’altra. Come mai hai scelto proprio questo gioco?
Beh, è uno sport (e un gioco) che amo e che mi riesce bene. T’insegna a stare con gli altri, ad accettare compagni e avversari. Ed è poetico, nel senso di infinitamente creativo. Tu pensa: quanti gol saranno stati realizzati nella storia? E non solo nella storia del calcio ufficiale bensì in tutti i cortili, le piazze, i campetti del mondo? Ebbene, non esistono due gol perfettamente uguali né mai esisteranno. La palla è rotonda, recita il proverbio. La palla è rotonda e anche la vita lo è. E forse, senza retorica, il vero talento consiste nel saper domare i rimbalzi della vita. San Francesco, per esempio, secondo me ha un talento enorme, assurdo. E così pure Etty Hillesum.
- Diversi, come accennavamo prima, sono i personaggi che popolano questo libro. Miriam, Valeria, Luigi, Giacomo, per dirne alcuni. Tutti ragazzi che incarnano perfettamente i tratti tipici e crudeli dell’adolescenza. Proprio in base alla precisione con cui li descrivi, senza risparmiarti nei dettagli, ti chiedo: quanto c’è di autobiografico in Breve storia del talento?
C’è parecchio. Rielaborato, rimescolato, frainteso, ma c’è. Tutti gli scrittori sono autobiografici, ecco perché a me fa un po’ sorridere la moda attuale di parlare d’autofiction come fosse chissà quale scoperta. L’autofiction c’è sempre stata. La nostra stessa vita è un’autofiction, nel senso che ciascuno di noi vive nella finzione che si è costruito, più o meno consciamente. Siamo di continuo immersi nelle storie. E’ bello ma anche spaventoso, è qualcosa di deformante rispetto al mondo – oppure no? Il mondo, come affermo nel romanzo, lo creiamo noi? Forse, in un certo senso. La nostra mente in ogni caso è uno strumento di formidabile potenza.
- Hai due lauree, una in Giurisprudenza e una in Lettere moderne. A proposito di quest’ultima so che ti sei laureato con una tesi su Cuore di tenebra di Conrad. Possiamo dire che Breve storia del talento è la tua linea d’ombra?
Sì, lo è. Nel senso che in questo libro breve ma denso faccio i conti con parecchie questioni che mi ossessionano e che prima non sarei stato altrettanto capace d’analizzare: il tempo, il destino, il passato e l’ombra che getta su di noi, le coincidenze e naturalmente il talento… Credo sia soprattutto del tempo che parlo, di come scorre e di come ci cambia. Nel bellissimo romanzo Cuori in Atlantide Stephen King soprannomina il tempo “il vecchio imbroglione calvo.” Ecco, anch’io lo vedo un po’ così, come un tizio che senza parere ti frega e che quando t’ha fregato non puoi più rimediare
- Tornando nuovamente ai personaggi, devo dire che ce n’è uno in particolare che ha destato una certa curiosità. Sto parlando di Padre Lucky, una figura insolita, molto anticonvenzionale e sicuramente appassionata e appassionante. “Questo era stato lo scandalo di Padre Lucky: dare voce a ciò che si deve tacere”. Da dove nasce questo personaggio così particolare? Si tratta di una persona realmente esistita con cui sei entrato in contatto o è solo frutto della fantasia?
E’ un personaggio di fantasia. E’ colui che, nell’episodio drammatico della predica, dà voce alla mia parte più disperata, quella che mi sussurra che tanto non c’è niente da fare per quanti sforzi compia, che siamo fottuti. E’ una parte che abbiamo tutti, ma per fortuna ne abbiamo anche un’altra che spera, altrimenti non saremmo qui affaccendati sul nostro pianetino che vortica furibondo ai margini di una galassia sconfinata persa fra miliardi di altre. E’ lo stesso personaggio che, una volta espulso dalla chiesa, si dedica ad assistere il prossimo, quelli meno fortunati di lui. E’ un personaggio che amo, e che temo.
- Il tuo romanzo, Enrico, è ricco di spunti di riflessione e non manca di toccare temi anche molto importanti, come il rapporto con la morte, il rapporto che abbiamo col tempo, coi ricordi e con la vita in generale. Ti chiedo dunque, in primis, cos’è per te il Tempo? Che rapporto hai con esso? Ti spaventa?
In parte ho risposto prima. Il tempo è il problema principale per me, quaggiù. La faccenda è semplice: siamo esseri dotati di coscienza e aneliamo all’infinito, ma la nostra vita finisce. Questo scandalo, beh… Come la mettiamo? Non lo so, probabilmente non lo sa nessuno. Io, come tanti altri, cerco d’iniziare ad affrontare il dilemma. E mi dico che forse noi umani possediamo un lato che trascende il tempo – ne parlano il narratore e Michele verso la fine, seduti al tavolo del bar. Un bel gol sarà sempre un bel gol, no? Anche dopo la fine di tutti gli universi, semmai ciò avverrà. Ebbene, il fatto stesso che io possa concepire una simile assurda follia mi rende umano, e dunque l’umano è anche un po’ magico.
- E invece che tipo di rapporto hai con la scrittura? Un rapporto sofferto, ostico o piuttosto un rapporto fluido, armonioso? E quando hai scoperto di avere questo talento?
Scoprii molto presto d’avere una certa abilità con la scrittura. Il mio rapporto con essa è sempre stato travagliato, ma non credo ne esista uno diverso. La scrittura è come una donna bella ma difficile, occorre starle dietro e sperare che non faccia i bagagli e ti molli lì. Certo, puoi essere costante, puoi esercitare il tuo talento, puoi corteggiare l’ispirazione e migliorare la tecnica ma rimane una componente di mistero, che poi è la stessa che induce Melville a smettere di scrivere romanzi poco dopo la stesura di Moby Dick, Verga a inaridirsi negli ultimi due decenni di vita, Rulfo a pubblicare due soli libri in tutto, Henry Roth a ritirarsi per trent’anni per dare mangime alle anatre dopo aver scritto un capolavoro come Chiamalo sonno, eccetera eccetera.
Scrivi: “Io credo che scopriamo la vita quando scopriamo la morte”. Tu quando hai scoperto, quindi, la vita?
A dodici anni, quando morì mio nonno materno. Gli volevo davvero bene. Fu lo scoperchiarsi del pozzo: guardai giù e nel buio vidi il mio viso in lacrime, riflesso laggiù sull’acqua del fondo.
Per concludere vorrei ancora chiederti qualcosa sul tuo passato. Come lo vedi ora, che puoi guardarlo con distacco e lucidità? In che modo guardi alla tua adolescenza? E soprattutto, cosa pensi dei giovani, degli adolescenti di oggi? Cosa diresti loro in merito al talento, alla capacità di cogliere un loro talento personale, di saperlo identificare e coltivare fin da subito?
Guardo a me ragazzo con molta tenerezza e un certo stupore, lo stupore di trovarmi qui e di condurre una vita tutto sommato normale, qualunque cosa la parola normale voglia dire. Agli adolescenti di oggi direi: è un mondo difficile, sempre più veloce, complesso e indecifrabile. Ancoratevi a qualcosa, una passione, una vocazione; coltivatela; e, a proposito di tempo, ricavatene un po’ per il silenzio e il pensiero, createvi un santuario interiore e inviolabile. Il fracasso là fuori è davvero troppo ormai; e la maggior parte sono menzogne.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Faccia a faccia con Enrico Macioci e il suo "Breve storia del talento"
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