Farley
- Autore: Christine Dwyer Hickey
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2019
Dicono che negli attimi che precedono la morte, scorra davanti tutta la vita. Non è per smitizzare, ma ritengo più probabile un’ampia sintesi e ad ogni modo la domanda è questa: quante giornate significative può contare un’esistenza dalla durata media? Sapete quei giorni che si stagliano sulla catena dei giorni così così e che a posteriori possono definirsi di snodo? Quelli di Farley, compresa qualche stagione, saranno una decina scarsa. Dieci passaggi nemmeno così epici da ricordare (memoria permettendo) in una settantina d’anni.
Farley è il protagonista del romanzo omonimo di Christine Dweyer Hickey ( Farley, PaginaUno, 2019, traduzione di Sabrina Campolongo) e probabilmente sta morendo. Ha avuto un ictus, o qualcosa del genere, nella sua stanza da bagno. È a terra, è solo, è notte e non può chiedere aiuto. L’incipit è di nitore stilistico adamantino, come del resto buona parte del romanzo:
Farley è consapevole di una macchia sfocata nel suo occhio destro. Come una pallina di luce nel buio. Si riempie e poi si svuota. Ogni minuto, come se possedesse una piccola cisterna dentro la sua testa. Una macchia che va e che viene. Si arrischia a pronunciare un paio di parole: ciao, poi macchia. Ci prova di nuovo, niente. Quindi comincia a passare al vaglio la situazione. È il cuore della notte, è in bagno; un lato della faccia schiacciato contro il linoleum, la spalla destra incastrata contro il termosifone. Il naso è a pochi centimetri dalla tazza del gabinetto e il suo corpo giace in una curva sgraziata nello spazio che la circonda (…) Potrebbe essere caduto rompendosi qualcosa, certo, è possibile. Ma non prova alcun dolore. non prova niente di niente. Quel che ricorda è lo spazio nero di un sogno senza sogni (…).
Eccetera eccetera. Il libro è strutturato per flash back, come un insistito sforzo di memoria o come la lunga reverie pre-mortem a cui si è accennato all’inizio. Una concatenazione di ricordi comuni, chissà quanto attendibili, che sono il riassunto di una vita: da quelli più vicini del giorno che precede l’incidente (14 gennaio 2010, gli è morto il datore di lavoro o forse il socio e Farley deve prepararsi come si deve al funerale) al dicembre 1940, sulla riva di un fiume - (non) luogo di arrivo e (non) ritorno insieme -, in cui Farley come nell’inicpit è da solo, a fronteggiare il guado.
“Un uomo, un ragazzo, un bambino, di nuovo un uomo, tutto insieme”.
Un cerchio che si apre e che si chiude, senza molto senso e senza nemmeno gloria. Sfiorando la riesumazione (il passato non è, sosteneva Agostino) di legami-lotte-perdite-tradimenti-ostinazioni, sullo sfondo di una Dublino-specchio, in bilico a sua volta su slanci e cadute. Limpidamente restituita dalla traduzione di Sabrina Campolongo, la prosa di Christine Dwyer Hickey introduce a spessori ontologici non indifferenti, al punto che le stazioni topiche e qualsiasi della vita di Farley, vengono buone per un discorso universale sulla condizione umana. Sono parole che si dicono per dire, ma in questo caso prendetele alla lettera: Farley è un romanzo radioso. Lo è per la felicità della prosa e lo è perché pulsa di vita vera. Da non perdere.
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