Al centro di Fine di una storia (Sellerio, 2024) di Graham Green troviamo il buio della Seconda guerra mondiale, Londra stecchita sotto un cielo di bombe naziste. Lei, Sarah, colta, appassionata, romantica, color pastello; lui, Henry, burocrate, carrierista, tiepido, color grigio; l’altro, Maurice, scrittore, illusionista di parole, bohémien, ardente, color sogno di contrabbando: il meccanismo è pronto per l’innesco!
Come ci ricorda Anton Čechov, se nel primo atto l’autore ci mostra la pistola, nell’ultimo ci sarà uno sparo. Sarah è ben presto delusa dalla mediocrità del marito e i suoi sogni scoloriscono, s’infeltriscono come un drappo dopo troppi lavaggi: la pistola di Čechov fa fuoco e lei comincia a ricercare il perduto amore in una serie di storie d’alcova, che al lettore è solo dato d’intuire; infine l’alchimia della passione si traduce nell’algebra dell’amore, Sarah e Maurice sfiorano il paradiso mentre il mondo, la Londra dipinta nella storia, vive il crepuscolo della Seconda guerra mondiale.
Le bombe hitleriane cadono sulla terra arsa e desolata mentre da essa i due amanti si librano verso il cielo.
“Ho sempre trovato difficoltà a provare attrazione sessuale senza un qualche senso di superiorità, mentale o fisica. Tutto quello che notai di lei quella prima volta fu la sua bellezza, la sua felicità, e quel suo modo di toccare le persone con le mani, come se gli volesse bene.”
Fine di una storia di Graham Greene (uscito nel 1951 e ora riproposto da Sellerio, 2024, con la traduzione di Alessandro Carrera) è organizzato tramite un gioco a incastro di flashback del protagonista che, partendo dal momento in cui l’amore è già finito, ce ne presenta l’innesco, lo sviluppo e il lento coagularsi, misterioso, del veleno dell’acredine, della gelosia, dell’egoismo, infine della fuga dell’amata.
Il flusso dei flashback è attivato, passato qualche anno dalla fine della relazione, dal fatto che Henry contatta Maurice chiedendogli aiuto per smascherare una presunta tresca che Sarah avrebbe con uno sconosciuto amante.
Era troppo bella perché mi eccitassi all’idea di una sua raggiungibilità.
Il testo, in molti punti virato nel joyciano flusso di coscienza che fa da metrica linguistica all’amore, spesso suggerisce proposizioni che il lettore fa fatica a inquadrare nel romanzo e che costituiscono una sorta di atto d’accusa contro Dio, colpevole di esistere ma non di essere – secondo la nota sentenza di Heidegger - cioè di rappresentare solo una categoria mentale: i due amanti e anche il marito tradito sono rappresentati come credenti nel potere conservativo della religione, ma atei in quanto al resto.
“Fine di una storia” di Greene: le analogie con Madame Bovary
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Durante un convegno notturno, quando l’esigenza di urlare la vita ha strappato di dosso ai due amanti i vestiti, una bomba cade sull’appartamento di Maurice, che rimane privo di sensi. Sarah lo giudica morto: questo è il punto di discontinuità della storia, la donna per avere salva la vita dell’amato, promette a Dio che non lo rivedrà più; Maurice, che non sa della promessa, si salva, Sarah scompare dalla sua vita e lo lascia da solo a cercare di riannodare le fila della propria vita per comprendere il motivo della rottura.
Per Maurice diverrà tutto chiaro quanto potrà, infine, leggere il diario di Sarah e ne comprenderà la fragilità, il lento oscillare tra le polarità dell’amore carnale e di quello sacro, tra Dio e Maurice.
Infine, in maniera non del tutto chiara, Sarah muore: come Emma Bovary, non sopravvive al vortice che i suoi amori hanno mulinato nella sua esistenza; Sarah rifiuta le cure, così come Emma s’avvelena, una forma velata di suicidio?
Il (triste) destino delle eroine letterarie: da Emma Bovary ad Anna Karenina
L’amante, pregno di cinismo - in fondo come quel bellimbusto di Rodolfo, ideato da Flaubert- svela al marito il tourbillon di amanti che hanno infuocato le lenzuola della moglie, ma implicitamente si vanta di essere stato l’unico per lei importante.
Comincia tra i due uomini uno strano rapporto, colorato con una luce di strana solidarietà, in cui il più geloso del passato di Sarah è l’amante: il matrimonio sarebbe solo un artificio giuridico, il velo legame e tra gli amanti che si sono visti, scelti, presi. Per cui:
Gli amanti traditi sono tragici.
Henry, come Carlo Bovary, perdona la moglie e sembra darsi velocemente pace, questa è la vita, sembra ripetersi come autoassoluzione; come per il Salieri cinematografico di Miloš Forman, la mediocrità implica l’assoluzione. Invece, si può dire, con Fabrizio De André, che tutti i sopravvissuti si sentono assolti ma sono per sempre coinvolti: l’incapacità di amare del marito, simile anche in questo a Carlo Bovary, il cinismo dei suoi amanti - compreso quello di Maurice, tronfio del suo apparato culturale e dei suoi successi librari, come di Rodolfo e Leon nel dramma di Flaubert - condannano Sarah che è l’unica a pagare il fio delle proprie azioni, esattamente come per Emma, sebbene nel testo di Flaubert si assiste anche alla morte del marito. Inoltre, un punto da non sottovalutare: Maurice ha una zoppia, che in letteratura è spesso metafora del piede caprino del demonio, per cui nasconde una visione faustiana, anzi mefistofelica, implicata anche nelle soventi filippiche contro Dio.
“Ma perché Tu hai dovuto farci questo? Se lei non avesse creduto in Te ora sarebbe viva e noi saremo ancora amanti.”
“Non ho mai capito perché la gente che riesce a mandar giù l’enorme improbabilità di un Dio con fattezze umane rilutta all’idea di un Diavolo con fattezze umane.”
Del resto la letteratura sulle donne perdute o presunte tali, vere eroine dell’amore, è da questo punto di vista una suonata monocorde sulla morte e/o la sconfitta: oltre Emma e Sarah, Desdemona, Anna Karenina, Margherita Gautier, Nana e - sebbene non muoiano, uccidono, però, il loro desiderio - Lady Chatterley, Isabel Archer e Nora; ma, forse soprattutto, Margherita, al centro della relazione sulfurea tra Faust e Mefistofele.
Le differenze con “Madame Bovary” di Flaubert
Un romanzo in cui l’autore mostra la decadenza della società borghese uscita dal tunnel della prima guerra, infestata dalle concezioni di estrema destra e ferita a morte del secondo conflitto. Viene mostrato anche una sorta di campionario di luoghi comuni sulle donne: la madre di Sarah - che si scopre essere incline a cercare di vivere alle spalle del genero e che accetta soldi anche da Maurice - e Sylvia, una ragazza che si propone a Maurice già durante un’intervista fatta allo scrittore da un critico con il quale la ragazza ha in corso una qualche relazione di contrabbando. Questi spaccati del mondo femminile sfiorano la misoginia.
Soprattutto, se ne vedono tracce evidenti anche nell’opinione che Maurice ha di Sarah:
Lei aveva un modo meraviglioso di eliminare il rimorso. A differenza di tutti noi, non era visitata dai sensi di colpa. Per lei quando una cosa era fatta, era fatta e finita: il rimorso moriva con l’atto.
Il romanzo è una ragionata collezione di forme dell’amore: deflagrante, tra gli amanti, che non devono nessun obolo al perbenismo; riguardoso, fraterno, cauto, tra coniugi; ma più di ogni altro, forte, invincibile, spaventoso, l’amore che Sarah, atea, improvvisamente si scopre di possedere nei confronti di Dio.
Forse il punto di maggiore distanza con il capolavoro di Flaubert, Madame Bovary è la presenza, nel testo di Greene, del sacro che, latente nel mondo - pascoliano atomo opaco di male – nei momenti in cui tutto sembra vespero si pone all’uomo come àncora di salvezza. La cappa della consolazione è un dono che Dio elargisce alla gente, tutta la parte finale dell’opera tende, quasi manzonianamente, a questo: alla convergenza finale tra “amore sacro e profano”, al mistero della Fede che pur tormentando redime, distruggendo resuscita, costruisce il trascendete nel contingente; del resto nella vita privata Greene, che pure ha corso la cavallina tra sesso e droghe, era un fervente cattolico.
Tuttavia, personalmente, avrei preferito più pathos, maggiore compartecipazione, insomma un parteggiamento dalla parte di Sarah - come di Emma e di tutte le altre – già qui, in terra, con il nostro pur imperfetto patrimonio affettivo che non rimandando a un Dio “che atterra e suscita, che affanna e che consola”, ma solo dopo, quando saremo posati nella “deserta coltrice”.
Il linguaggio, che alterna sapientemente l’isteresi dell’imperfetto con il precipitarsi del presente, volto alla narrazione in prima persona, con evidenti influssi joyciani, è di rara perfezione ed eleganza e contribuisce alla fama che ha accompagnato l’opera.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Fine di una storia”, la Madame Bovary di Graham Greene: analogie e differenze con Flaubert
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