Forse
- Autore: Rosetta Loy
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2016
È da poco in libreria “Forse” (Einaudi 2016) di Rosetta Loy, prima parte dell’autobiografia in cui l’autrice nata a Roma nel 1931 racconta la sua privilegiata infanzia, l’adolescenza ribelle e l’incontro con il futuro marito Peppe Loy, fratello di Nanni Loy regista, sceneggiatore e attore.
Scrittrice di numerosi romanzi, tra i quali “La bicicletta”, “Le strade di polvere”, “Cioccolata da Hanselmann”, “La parola ebreo”, vincitrice di premi letterari come il Premio Viareggio, il Premio Fregene, il Premio Rapallo-Carige e il Premio Bagutta, Loy, che fa parte della “Generazione degli anni Trenta”, tra nostalgia e autoironia rievoca se stessa, partendo dallo sbalorditivo inizio:
“Io sono morta tre volte”.
Sì, Rosetta Loy è stata sul punto di morire tre volte e per tre volte è rinata: da bambina, a cinque anni, quando fu operata d’appendicite; durante il primo parto dal quale nacque una bambina e poi quando medici distratti sbagliarono una diagnosi ai polmoni. Se “Ricordare è forse il modo più tormentoso di dimenticare e forse il modo più gradevole di lenire questo tormento”, come asserisce Eric Fried (1921-1988), la scrittrice sceglie questa frase tratta da “È quel che è” del poeta austriaco naturalizzato britannico, come esergo del testo per offrire al lettore una veritiera testimonianza sul proprio passato senza fare sconti a nessuno, a cominciare da se stessa. Addentrarsi quindi negli anni che s’infilano giù per un imbuto
“lasciando a galleggiare solo dei frammenti dove al centro compare il tetto della casa simile a un gigantesco cappello”
la grande casa con giardino e tanti cani costruita sul punto più alto di Grottarossa, alla periferia nord della Capitale da dove nelle giornate più fredde si delinea la cima innevata del Terminillo. Qui negli anni Sessanta/Settanta, una giovane donna viveva insieme al marito Peppe, alto e forte, intelligente e generoso, “comunista nel cuore e aristocratico nel disprezzo per la borghesia” e ai loro quattro figli, tre femmine e “un maschietto dai capelli biondi”. Anni composti in un unico affresco, dove una miriade di amici, “un numero esorbitante”, ogni domenica pomeriggio si divertiva in scatenate partite a calcetto sul campo che Peppe aveva organizzato nella parte bassa del giardino. Queste rievocazioni però bloccano “la profonda essenza della memoria che dovrebbe ridargli vita”. Allora “proviamo a partire da molto lontano”, per arrivare al 16 luglio del 1942. La famiglia di Rosetta, appartenente all’alta borghesia romana, padre costruttore, trasloca cambiando quartiere, orizzonte, luce con la signora Anna Olteanu, istitutrice rumena che “si rivelerà essenziale per la mia formazione”. La nuova abitazione è in viale di Villa Grazioli, attico e superattico con una serie di terrazze tutte intorno. Il trasferimento da corso d’Italia ai Parioli ha comportato l’iscrizione in una nuova scuola, presso l’Istituto Assunzione, e nuove amicizie, tra le quali Gabriella che ha un occhio storto “e non si sa mai dove guardi”, però “è piena di inventiva”. Nel frattempo la II Guerra Mondiale è agli sgoccioli: nel gennaio del 1944 il VI Corpo d’Armata angloamericano sbarca ad Anzio e da quel momento ogni mattina un breve uragano di bombe si riversa su Roma fino a quando, il 5 giugno del ’44, i tedeschi lasciano l’Urbe “nel rombo dei loro scarponi, l’elmetto calato sugli occhi”. È l’inizio della fine di un incubo. Nel 1949, un sabato di febbraio,
“l’incontro che avrà un’importanza decisiva nella mia vita”.
Ciò che colpisce della fotografia in bianco e nero che si trova nella copertina di questo intenso memoir è lo sguardo dell’autrice, profondo, malinconico, esigente.
“Il percorso che disegna il nostro minuscolo esistere è solo in apparenza coperto da vapori di nebbia, in realtà è nitido quasi fosse sotto l’occhio di uno sparviero”.
Forse
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