Il 3 ottobre 1858 nasceva “la Divina” Eleonora Duse, tuttora considerata una delle più grandi attrici teatrali italiane mai esistite. A cavallo tra Ottocento e Novecento il suo nome era leggenda, tutti accorrevano per ammirarla, per applaudirla, per venerarla: la sua sola presenza riempiva i teatri. Ma qual era il suo segreto? Le cronache del tempo definivano Duse come “l’incarnazione stessa dell’arte”, per questa ragione, di certo, la amò D’Annunzio che ne fece la sua Musa in carne e ossa.
Chi era Eleonora Duse, la Divina
Il suo era puro talento, un concentrato di autentica bravura.
Mentre le sue colleghe attrici erano ancora ancorate a una concezione vecchio stile del teatro, Eleonora Duse fu la prima a rinnovare la teatralità capendo che per recitare bene non doveva né strepitare né eccedere nel mostrare le emozioni del personaggio: ne risultò uno stile tutto suo capace di incantare le folle come un serpente a sonagli uscito dalla cesta. Era stata Elettra, Ofelia e la Terese Raquin di Zola; ma in fondo era sempre lei, Eleonora, che nelle sue eroine metteva sé stessa, il suo dolore, la sua rabbia, i suoi rimpianti, in una naturalezza scenica al di fuori di ogni copione che la platea premiava con applausi scroscianti. Ormai gli spettatori pagavano il biglietto non per vedere l’opera, ma per vedere “la Duse”. Calcò i palcoscenici di tutto il mondo, perché la sua straordinaria recitazione infrangeva persino le barriere linguistiche: il suo talento ammaliò persino Anton Cechov che “non sapeva una parola d’italiano”, ma rimase incantato nel vederla recitare in un’opera di Shakespeare.
Oltre al pubblico plaudente la Divina stregò pure il poeta vate Gabriele D’Annunzio, con cui intrecciò una tormentata storia d’amore - o meglio, quella che oggi definiremmo senza indugi una “relazione tossica”. Questo rapporto insano, ma molto passionale, è stato eternato dalla letteratura. Proprio a Eleonora Duse è dedicata la poesia forse più celebre di D’Annunzio, La pioggia nel pineto. Dietro l’enigmatica figura di Ermione, creatura quasi mitologica simile a una ninfa silvana, si celava la figura affusolata di Eleonora, i suoi lunghi capelli ondulati, le sue movenze teatrali. Il poeta le diede il nome di una dea, la bellissima figlia di Elena di Sparta, perché il mondo intero conoscesse il fascino della Divina.
Scopriamo come nacque la storia d’amore tra D’Annunzio e la sua eterna musa ispiratrice, quando si incontrarono e perché.
Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio: il primo incontro
In realtà il primo incontro tra Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio non fu galeotto. Non si trattò di un colpo di fulmine travolgente né del principio di una passione incendiaria. I due si conobbero a Roma, quando erano ancora entrambi al principio delle loro carriere: furono affascinati l’uno dall’altra, ma nulla più. D’Annunzio aveva cinque anni in meno della Duse e, in quel frangente, lei lo ricordò come un ragazzo biondo, molto attraente con “qualcosa di ardente nella persona”, ma rifiutò le sue avances. Il poeta ritentò anni dopo, intercettandola al termine di una tournée romana, le si fece vicino acclamandola come “grande amatrice”, ma ancora una volta lei sorrise e lo ignorò.
La scintilla scoccò dieci anni dopo quando Gabriele D’Annunzio dedicò alla Duse un passo delle sue Elegie Romane (1882) e le spedì una copia speciale con una scritta sul frontespizio: “Alla Divina Eleonora”.
L’attrice rimase talmente colpita dalle parole del poeta che decise di volerlo incontrare a Venezia. La città lagunare, sospesa sull’acqua, fu il teatro del loro amore tormentato. Eleonora Duse decise di abbandonarsi alla “lusinga di quegli occhi chiari” e scordare ogni sapienza, ogni amara verità imparata sull’amore. Eleonora era già stata ferita; il suo grande amore era stato un cronista de Il Mattino di Napoli, Martino Cafiero, che la abbandonò non appena seppe che lei era incinta. Il dolore dell’abbandono fu grande, ma ancora peggiore fu la prematura scomparsa del figlio che morì poche ore dopo aver visto la luce. Negli anni la Divina aveva avuto altri amori, un altro matrimonio con un collega da cui era nata la figlia Enrichetta, ma nessuna passione era stata felice, tutte si erano consumate rapidamente come una fiamma che brucia. Quando interpretava Ofelia, Elettra e le altre eroine tragiche, Eleonora Duse trasferiva in loro la sua stessa sofferenza. Eppure ora aveva deciso di abbandonarsi di nuovo all’amore, cedendo allo sguardo adorante di quel giovane poeta, ben conscia del rischio che correva.
Eleonora Duse, musa di D’Annunzio
Sarebbe stato l’inizio di una passione-ossessione che avrebbe nuociuto soprattutto a lei che all’epoca, lo ricordiamo, era all’apice della fama. D’Annunzio era un seduttore e c’è chi insinua che la sua relazione con la Duse non fu casuale, ma dettata da interessi: infatti grazie al successo della compagna il poeta vate riuscì a portare i suoi drammi sui palcoscenici dei migliori teatri nazionali e a ripagare i creditori con cui si era indebitato. Ora, sicuramente la relazione con la Divina aiutò la carriera di D’Annunzio, ma etichettarlo come un amore dettato da interessi pare eccessivo e ingiusto: non dimentichiamo che lui la inseguiva - e venerava - da oltre dieci anni e, nonostante tutti i rifiuti, non si era mai arreso, continuava a ritenerla una musa ispiratrice.
Eleonora Duse, da parte sua, era affascinata dalla cultura di D’Annunzio e decise di finanziare, di tasca propria, le produzioni teatrali del poeta. Non fu un buon investimento. Le opere teatrali dannunziane non erano amate dal pubblico: la gente applaudiva lei, non D’Annunzio. La coppia, però, in quel periodo viveva un momento di autentica estasi creativa: i due, di comune accordo, intendevano rinnovare il vecchio repertorio teatrale italiano in una maniera poetica. Duse vedeva nella penna dell’amante l’opportunità che aveva a lungo cercato, grazie al genio di D’Annunzio poteva interpretare nuovi personaggi, abbandonare i vecchi e usurati ruoli che ormai le stavano stretti. Per il vate interpretò Francesca Da Rimini e La Gioconda. Al principio i conti non tornavano e la povera Duse si attirò pure le ire degli impresari; poi, lentamente, le cose andarono meglio, ma mentre i successi aumentavano ecco che l’intesa tra i due amanti diminuiva. Le scappatelle di D’Annunzio, del resto, erano note; ma Eleonora chiudeva sempre un occhio. Lo smacco peggiore fu quando lui le preferì l’attrice francese Sarah Bernhardt, che la Divina considerava sua eterna rivale. Il rapporto si era dunque incrinato, non era più la passione incendiaria di un tempo, eppure il sodalizio tra i due - tra ripicche e risentimenti - proseguiva, dilaniando l’anima di entrambi.
La fine dell’amore tra Duse e D’Annunzio
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La tormentata relazione tra Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio terminò nove anni dopo, quando l’attrice, stanca dei continui tradimenti, si rifiutò di produrre il dramma di lui La figlia di Iorio. D’Annunzio lo visse come un affronto e, in tutta risposta, scritturò per la parte della protagonista la sua rivale Irma Gramatica.
Lei, a quel punto, gli scrisse un’ultima lettera, in cui lo chiamava con il nomignolo inquietante di “figlio” che già ci dice molto sulla effettiva tossicità di quella relazione:
Lascia la spada e la penna quando mi pensi. Non ti difendere, figlio, perché io non ti accuso. Non parlarmi dell’impero della ragione, della tua vita carnale, della tua sete di vita gioiosa. Son sazia di queste parole! Da anni ti ascolto dirle. Non ti posso seguire interamente, né interamente comprendere.
Nel finale della lettera Eleonora scagliava contro il poeta una maledizione: “ti auguro oblio nell’arte”, scriveva in una sorta di damnatio memoriae. Lui aveva scritto un romanzo terribile su di lei, Il fuoco, in cui parlava senza veli della loro relazione e sottolineava persino i difetti fisici dell’amante. Quell’opera letteraria annientava il libro galeotto che era stato la scintilla del loro amore. Eleonora era stanca, indebitata, amareggiata, decise di porre fine a quell’amore distruttivo che ormai le dava solo pena.
Lui, però, non si rassegnò mai all’idea di averla perduta. Dopo anni le inviò un mazzo di fiori con un bigliettino chiedendo di poterla incontrare di nuovo.
Era il 1922, fu il loro ultimo incontro. D’Annunzio era ormai famoso e sperava che Eleonora Duse potesse perdonargli quelli che definiva degli “errori giovanili”. Lei accettò di vederlo, ma non la riconciliazione. Non si rividero mai più, lei morì di polmonite durante una tournée a Pittsburgh, il 21 aprile 1924.
In una pagina dei suoi diari dedicata a Gabriele D’Annunzio aveva scritto:
Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché l’ho amato.
Il poeta vate continuò a ritenerla la sua eterna musa, pianse la sua morte scrivendo: “È morta colei che non meritai”. Quando pensava a Eleonora Duse, Gabriele D’Annunzio era avvelenato dal rimpianto, dal rimorso. Ma la letteratura non è sufficiente a risarcire le offese della vita, non può davvero porre rimedio. In fondo non è altro che la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Gabriele D’Annunzio e Eleonora Duse: un amore tossico?
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