Generazione Settanta. Storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982
- Autore: Miguel Gotor
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2022
Generazione Settanta, Storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982, (Einaudi, 2022) è l’ultimo titolo di Miguel Gotor, storico autore di studi imprescindibili sul caso Moro.
Dal titolo si evince che gli anni Settanta iniziano prima e finiscono dopo lo stretto, cruciale decennio designato. Per abitudine, si penserebbe al ’68, ma già prima si individuano i germi di alcune costanti future facilmente riconoscibili: crescita continua della sinistra, dai grandi risultati del PCI alla lunga teoria di partiti e gruppi extraparlamentari ben più radicali (e con gli anni sempre più in conflitto fra loro); la progressiva alleanza fra studenti (che guardano a quanto succede negli USA) e classe operaia; l’acuirsi della lotta di classe; l’insofferenza anti-autoritaria non solo verso il ceto padronale ma anche per gli aspetti più retrivi delle istituzioni scolastiche e dell’università; la lotta per i diritti civili (il divorzio su tutti) di un’Italia diversa, partecipativa; certo libertarismo, che nella seconda metà degli anni Settanta verrà sempre più soffocato dalla rigidità ideologica che sfocerà nella lotta armata – lo stesso ’77 tiene insieme dell’underground e della P38. E soprattutto, sul versate negativo, la strategia della tensione.
Lo storico e saggista italiano Miguel Gotor individua un momento sorgivo di queste trasformazioni nella marea di giovani che raggiunsero Firenze nel 1966 a tentare di porre un argine – il caso di dire – alla catastrofe dell’alluvione. Sempre i giovani, quelli del movimento studentesco, cominciarono a pensare alle università come luoghi di confronti e/o di scontri; si videro anche le prime comuni, rurali o urbane.
Ma quest’Italia che stava cambiando non piaceva alle forze reazionarie intossicate dal lascito fascista in vari settori della vita pubblica: politici acquattati nei partiti istituzionali, americani ossessionati dal comunismo, per non dire delle forze armate, della magistratura, e ancor più delle formazioni di estrema destra. Momento apicale della strategia della tensione, l’assassinio di Aldo Moro: è il 1977.
Anche questo versante negativo della storia (quello su cui più si concentra l’autore) parte da lontano, dal convegno del 1965 all’Hotel Parco dei Principi di Roma, nel quale alcuni personaggi, militari, neofascisti, intelligence britannica etc, ragionarono di come fermare – a tutti i costi, nessuno escluso – l’avanzare delle pretese democratiche del paese. Si fecero capire sino in fondo nei mesi del cosiddetto autunno caldo degli operai, anno 1969: il 12 dicembre, al mattino il senato approvava lo Statuto dei Lavoratori; nel pomeriggio, esplodeva la bomba di Piazza Fontana a Milano. La strage fu coordinata fra neofascisti e servizi segreti, non solo italiani – ma questo fu acclarato molto tempo dopo.
Gli stragisti e i loro fiancheggiatori vendettero al paese una fantomatica pista anarchica; intanto Henry Kissinger non lesinava danaro alle forze italiane più reazionarie e acerrime nemiche proprio di Aldo Moro, il quale guardava al PCI come interlocutore necessario ben prima che si stringessero le maglie di quel compromesso storico che sarebbe stato stroncato con la sua morte.
Per avere un’idea della posta in gioco, spostiamoci avanti di un anno, al (meno noto al grande pubblico) fallito golpe di Valerio Borghese del 7 dicembre 1970. Emblematico dell’intrico di affari che suggellerà quella nerissima stagione, delle intenzioni sovversive del vario numero degli interessati e, con varie differenze, coincidenti in un punto capitale: stroncare la sinistra, non solo il PCI, che viaggiava sul 30%, non solo il Movimento, ma la stessa voglia di cambiamento del paese. Il disegno di Borghese, il principe nero, ex repubblichino della X mas, tra i fondatori del Movimento Sociale e poi del Fronte Nazionale, prevedeva l’arresto del presidente Saragat e l’instaurazione di un regime autoritario sul modello di Spagna, Portogallo e Grecia, allora sotto dittature parafasciste e militari. “Contro il disordine, contro il comunismo” erano le parole d’ordine che il golpista condivideva con altre formazioni come Ordine Nuovo, fondato da Pino Rauti, esplicitamente nazista, o Avanguardia Nazionale. E con molti rappresentanti degli apparati militari. Borghese ebbe l’appoggio del costruttore Remo Orlandini, dei servizi segreti, di mafia e ‘ndrangheta. Dello stesso periodo furono le rivolte di Reggio Calabria - anche lì furono in primo piano diverse sigle dell’estrema destra. Per tutti quegli anni, la disinformazione sarebbe stata programmatica, i depistaggi parte stessa dei progetti eversivi (nella strage del deragliamento del treno di Gioia Tauro solo il giornalista del Corriere della sera Mario Righetti avrebbe cercato di andare a fondo alla vicenda fino a essere diffidato dal proseguire il suo mestiere).
Tornando al piano criminale di Borghese, gli interessi diversi furono probabilmente alla base del suo fallimento: gli americani di area repubblicana si dissero favorevoli a patto che nelle nuove elezioni si ponesse a capo del consiglio dei ministri l’onnipresente Giulio Andreotti – maestro nel minimizzare i fatti, sempre, derubricarli a goliardata, e soprattutto far sparire documenti. Borghese probabilmente voleva di più.
Il disegno prevedeva l’occupazione della Rai, una specie di confino per alcuni politici, sindacalisti, e i pochissimi militari importanti non di stretta fede anticomunista (difficile trovarli, non si faceva carriera nei corpi armati se si era comunisti). Nella notte fatale Borghese ricevette una telefonata che lo dissuase dall’impresa - non si sa ancora da chi: Licio Gelli? Un colonnello dei carabinieri? Qualcuno vicino ad Andreotti?
Emblematico, ancora, il golpe di Borghese, perché se fallì il tentativo di tornare a una dittatura propriamente detta, l’avvertimento arrivò a segno. “Possiamo farlo quando vogliamo”, era questo il messaggio, ossia il modo per persuadere milioni di persone della necessità di un nuovo, regressivo ordine sociale, e con esso il ridimensionamento delle aspirazioni non solo della sinistra, ma di tutto il paese, che col tempo avrebbe finito con l’accettare gli storici assetti padronali, e il ripiegamento su se stessi.
Ci vollero anni, stragi e morti ammazzati, vittime comuni ed eccellenti, una sistematica disinformazione, la non occasionale connivenza della magistratura con le dinamiche stragiste che fece spesso parte del problema piuttosto che della soluzione, tanto per rievocare tic espressivi di quegli anni. Ancora, l’occultamento di migliaia di documenti - si pensi ai fascicoli del generale De Lorenzo su imprenditori, politici e uomini di Chiesa. ma le trame occulte e intersecate di malavita, squadrismi, servizi segreti assortiti (indigeni, israeliani, francesi, Cia etc) P2, Gladio e altre lobby, avrebbero in qualche modo avuto la meglio.
Si diceva all’inizio della cultura libertaria che finì per soccombere agli anni di piombo. Provò a resistere, inventando nuove forme di intervento, partecipazione, creatività che ora la grande ricostruzione storica rischia di relegare troppo ai margini. Non casualmente - si dovrebbe ricordare - le frizioni interne alla sinistra (fra il PCI e l’estrema sinistra, fra i suoi vari partiti armati e un mondo con non pochi tratti di ingenuità, per certi versi edonistico, legato alla musica, all’arte, alle radio libere, e pieno di pacifisti romantici sedotti dell’India) furono assai più nette di quanto non accadesse alla destra, persino quella che si nascondeva nell’apparenza bonaria della Democrazia Cristiana. Le vicende legate alla cosiddetta controcultura, come peraltro la lotta del movimento femminista, appaiono un po’ sacrificate dal plumbeo clima generale. Emergono invece dalla lettura di Gotor, ma come emblemi fragilissimi, canzoni e motivi che scandirono quel tempo irripetibile.
Laddove altri testi, “testi-testamenti” li potremmo definire, documenti drammatici come le lettere e il memoriale di Moro già altrove analiticamente studiati dall’autore, sembrano stendere una colata pesante di catrame e dettare legge su tutti quegli anni Aldo Moro stesso secondo Miguel Gotor avrebbe potuto dirci cose significative sul golpe di Borghese – dopo la sua morte gli anni recitati nel sottotitolo fino al 1982, la barbara ferocia di Bologna, Ustica, gli omicidi di Piersanti Mattarella e del generale Dalla Chiesa e altri, non fanno che infierire sul cadavere della democrazia colpita a morte nel cofano di una Renault 4 rossa parcheggiata nel pieno centro di Roma. Questo sembra lo stigma del libro.
D’altra parte, che la strategia nera sia riuscita lo dimostra il fatto che il paese abbia via via dato la sensazione di non voler sapere: le rivelazioni, le allusioni e gli stessi omissis del politico democristiano ucciso dalle BR celano il grande rimosso di una politica, di una democrazia italiana spesso sull’orlo del baratro ma con gli anni Ottanta deliberatamente spensierata (o rassegnata).
Torna alla mente una vecchia, terribile frase di Antonio Moresco sull’allegria apparente di questo paese. Moresco parla della disinvoltura storica di alcuni dei suoi uomini di potere che hanno cercato di nascondere le tragedie per lo più da essi stessi costruite con cinica arte, o forse su una vocazione antropologica di quella che oggi si vorrebbe chiamare “nazione”, ilare e feroce insieme, chissà:
“Mentre si festeggia, di sotto si sentono le urla dei morti ammazzati”.
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