Gesù. Il film di una vita
- Autore: Carl Theodor Dreyer
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Iperborea
- Anno di pubblicazione: 2023
Carl Theodor Dreyer, regista danese nato nel 1899 e scomparso nel 1968, molto amato da altri grandi cineasti, non ebbe molta fortuna.
Fece pochi film, altri gli furono impediti - il suo cinema, influenzato non poco dall’intransigenza di un’ispirazione luterana, era troppo severo, rigoroso e cupo per infiammare i produttori che ne intuivano la difficoltà in chiave commerciale. Dreyer si mantenne in varie miniere, nel giornalismo, nel cinema con occupazioni diverse compresa la scrittura di sottotitoli per film muti, ma per lo più il cinema che gli dette da vivere fu quello della sala cinematografica che gestiva.
Autore di capolavori assoluti come Ordet, Giovanna D’Arco, Dies Irae, poco appetibili per un pubblico troppo vasto, non riuscì a portare a termine il progetto cui forse teneva di più, un’opera su Gesù della quale Iperborea manda in libreria la corposa sceneggiatura con il titolo Gesù. Il film di una vita (Iperborea, 2023, traduzione di Mauro Vanelli, postfazione di Goffredo Fofi).
Il produttore, l’americano Blevins Davis, rinviò per anni la lavorazione del film fino a quando il regista si accordò con la Rai per trasmetterlo in televisione. Purtroppo Dreyer morì l’anno dopo, senza fare in tempo a passare dietro la macchina da presa.
L’opera, lo diciamo subito, era intenzionata da un perspicuo avviso politico – Gesù per Dreyer è un idealista dalla parte del suo popolo, quello ebraico (non del governo, visto alla stregua dei collaborazionisti del secolo scorso), sottomesso all’invasore romano.
Arbitrarietà o meno della lettura, Dreyer vi aggiunge un’esplicita similitudine con gli anni della Seconda guerra mondiale, l’oppressione tedesca in Danimarca.
Il regista insomma vede l’uomo, Gesù, come un combattente testardo, persino iroso, e nello stesso tempo compassionevole, preso dalla missione di aiutare i diseredati, gli indigenti, i reietti.
Alla mera dimensione trascendente Dreyer preferisce un piano più terreno, storicizzando e comparando con il presente con evidente spregiudicatezza filologica (del resto, chi potrebbe vantarne una impeccabile sulla materia?).
O potremmo chiamarla tendenziosità: volendo togliere al nazismo uno degli argomenti classici della persecuzione antisemita orientò il lavoro verso una negazione del “deicidio” - alacrità del lavoro testimoniata a ogni modo non solo dai lunghi anni che vi dedicò ma dai soggiorni in Palestina e dallo studio dell’ebraico.
Naturalmente, difficile tradurre in parola la visione potente dell’immagine dreyeriana, fra le più peculiari e intense della storia del cinema, di rara risonanza emotiva, tale da eccedere la mera trascrizione delle parole.
L’anti-naturalismo, la focalizzazione sui volti, la luce del cinema del regista danese – a chi non lo conoscesse, per quanto questa sceneggiatura sia minuziosa, abbondante nei dettagli e non priva di spiegazioni aggiuntive dell’autore, consiglieremmo di vedere un suo film prima di avvicinarla e non ridurla al suo “contenuto” (altrimenti non sarebbe cinema).
Gesù. Il film di una vita
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