Giovanni Meli. La vita e le opere
- Autore: Marco Scalabrino
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2015
Ogni testo si costruisce come un mosaico di citazioni e non è che l’assorbimento e la trasformazione di altri testi. Questo pensiero di Julia Kristeva, studiosa dell’intertestualità (1966), credo che si adatti bene all’opera del siciliano di Trapani Marco Scalabrino intitolata “Giovanni Meli. La vita e le opere” (Trapani, Drepanum, 2015), pregevole monografia appassionata e meditata ad un tempo. Data alle stampe nel bicentenario della scomparsa, prende in esame una delle voci più autorevoli della poesia siciliana con una ricostruzione di ampio respiro grazie alla sua ricerca che abbraccia studi e testimonianze, note critiche e stralci desunti dai migliori componimenti del Meli (Palermo, 6 marzo 1740 – ivi, 20 dicembre 1815).
Il libro si articola in due parti, ciascuna delle quali è suddivisa in più sezioni. La prima inquadra la personalità del poeta, seguendolo lungo il tracciato degli episodi più significativi della vita unitamente all’esame dettagliato delle opere; la seconda comprende, fra l’altro, un’aggiornata bibliografia unitamente a una “Piccola antologia”, così definita dall’autore. L’intento documentario è chiaro: il contributo – si legge - è quello di offrire all’attenzione dei lettori un ampio panorama di giudizi, di scritture e di documenti che, interagendo fra di loro, forniscano un quadro, quanto più completo è possibile, sulle dinamiche dei componimenti meliani. La fonte privilegiata, almeno all’inizio dell’“excursus”, è quella di Alessio Di Giovanni che già aveva avuto l’accortezza di collocare il personaggio nella società siciliana del tempo:
“Fra le persone, i luoghi, gli avvenimenti in mezzo ai quali il poeta visse e da cui fu ispirato”.
Del resto, egli, che aveva assimilato l’“Orlando Furioso” dell’Ariosto, trasse ispirazione dalla quotidianità dei quartieri palermitani arieggiati da una sinfonia di colori, di odori e di suoni. E’ la spontaneità del verso, in contrasto con il tono aristocratico della poesia accademica che si impone, scrive Salvatore Camilleri, sin dalle sue prime produzioni. La venatura è maliziosa, sorridente, giovanile in un vocabolario fresco e immediato.
Attraverso la voce di autorevoli studiosi, apprendiamo i motivi che lo indussero a non scrivere più versi italiani e a privilegiare il dialetto siciliano con la conseguente liberazione dal giogo dell’Arcadia (pp.23-25), senza che per questo egli avesse rinunciato agli affreschi melodiosi della natura (pp. 40-50), entro un’atmosfera di "naturalismo zoliano" (pp.90-94):
“Il Meli, afferma Giuseppe Checchia, si propose di sollevare a dignità letteraria l’intima bellezza e vetustà del dialetto nativo”.
Pregevole, dunque, l’ordito narrativo di Scalabrino: egli non offre dati in modo freddo ed erudito, ma narra e sa narrare l’esito dei suoi puntuali studi, coinvolgendo con una modalità del tutto comunicativa. In particolare, impreziosiscono il libro le pagine antologiche (pp. 167-203): sicché, data la difficile reperibilità delle opere meliane, è possibile avere un’esperienza diretta sul modo linguistico in cui vengono trattati gli argomenti privilegiati. Il discorso a questo punto si fa davvero complesso: da una parte le prime composizioni del Meli sono espresse in dialetto popolare; dall’altra, egli, poi, si propone di valorizzare il siciliano toscaneggiante, distanziandosi dal siciliano del popolo. Il discorso resta aperto e indubbiamente suscettibile di ulteriori approfondimenti (p. 129). Ad ogni modo, lo studio di Scalabrino, riproponendo all’attenzione gli scritti di questo illustre personaggio, offre, in conclusione, un’articolata documentazione su cui riflettere, perché si possano inquadrare e approfondire le coordinate della poesia dialettale siciliana.
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