Ci fu un tempo in cui grazie alla narrazione orale si passava nella sfera del magico e ognuno metteva in moto desideri, immaginazioni, finzioni.
Giuseppe Bonaviri ha parlato di una favolistica“ matri-lineare”, essendo la donna ad avere il ruolo sottile e folgorante di raccontatrice. Divertiva e, come una calamita, attirava l’attenzione l’inesistente.
Tutto veniva consumato nell’invenzione. E si facevano strada i sentimenti attraverso la parola dei padri, tra scherzosità e sapienzialità.
Ciascuno degli aneddoti veniva anche liberamente commentato, tant’è che Maria Corrao ha scritto:
Gli aneddoti, per la loro natura comica, sono strettamente legati da un rapporto di interdipendenza con la disposizione d’animo di chi li legge o ascolta, e perciò possono esplicare di volta in volta funzioni diverse. Alcune versioni si presentano come episodi di satira politica o di costume, mentre altre nascondono sotto l’aspetto gioioso dell’evento ludico un fine educativo, ma non di rado si prestano a esegesi mistiche.
C’erano tante stratificazioni culturali in quelle storie che viaggiavano da un luogo all’altro, ma allora non si sapevano: venivano raccontate soltanto per diletto.
Per quanto riguarda Giufà, eroe e anti-eroe tragicomico, il riferimento alla letteratura araba è diventato essenziale: vi si parla di nādira indicante uno sfogo che provoca ilarità, sorpresa e risate sia nel lettore che nell’ascoltatore.
Tutti quelli che chiamano nawādir i racconti umoristici di Ğuḥā e dei suoi simili dicono che costui si è separato dal modo abituale di agire, utilizzando detti e comportamenti ritenuti strani: quindi, rifiutati.
Giufà nel racconto fiabesco
La nādira, dunque: una specie di racconto molto breve caratterizzato dalla stupidità, dall’ottusità dall’inganno con personaggi ubriachi, avari, sciocchi, i cui aneddoti, noti anche nella vita popolare, sono il frutto circostanze, e si diffondono e si imparano rapidamente in quanto includono situazioni paradossali che provocano attenzione e riso. La nādira di Ğuḥā appartiene alle tradizioni letterarie arabe e non solo condivide le aspirazioni e le speranze dei popoli arabi, ma desidera anche cambiare i propri valori. Non viene detta solo per intrattenimento o per svolgere portare allegria nella vita quotidiana, ma viene considerata un’arma contro l’arroganza politica e l’oppressione sociale.
Abdu-l-Ḥamīd Yūnis vede negli aneddoti attribuiti a questa figura la testimonianza della saggezza e dell’esperienza popolare del popolo arabo in quanto:
Gli aneddoti degli sciocchi richiamano la virtù dell’intelletto, gli aneddoti degli avari richiamano la virtù della generosità, adottare un comportamento anomalo o la risposta condizionata agli eventi al di fuori della logica e dell’intelletto richiama la saggezza popolare che colpisce lo smaltimento della tensione, come una caricatura.
Potrebbe dirsi che la nādira di Ğuḥā è un racconto di prosa molto breve che rispecchia la filosofia dell’uomo arabo; gli eventi sono quelli della vita quotidiana che rispecchiano i pareri del pubblico sulla vita sociale e politica e i protagonisti sono di solito esseri umani. La nādira è priva di complessità, ha un asse principale con un finale divertente e dipende da strane situazioni nate a causa di stupidità, ottusità, inganno, diatriba, parole, indovinelli, giochi di parole e altri errori logici, trucchi grafici.
Abdu-s-sattār Farrāğ dice che
Gli aneddoti entrano in testa, poi si separano dalla loro prima origine e cambiano col cambiare degli orizzonti, vengono detti dalle lingue, fino a trovare qualcuno che attribuisce loro nomi più leggeri, che li rendono celebri come commedie e aneddoti.
Ğuḥā appare molto sciocco. A volte lo è, ma spesso si finge di essere stupido ed usa l’ironia, adulando il suo interlocutore e cogliendo l’occasione per rivelarne le carenze. Rappresenta quelle persone che usano il riso e l’ironia per difendersi dai guai e uscire vincitore. L’arma dell’ironia è anche una strategia di denuncia con cui vengono ridicolizzati i potenti come i re, i giudici e gli sceicchi, svelando ipocrisie, corruzioni e guadagni illeciti. Trovandosi da protagonista con molteplici identità in brevi racconti umoristici ha conquistato il mondo mediterraneo: egli è nato nel mondo arabo, ma si è diffuso nella cultura italiana e particolarmente siciliana, a seguito della conquista dei musulmani, nonché dell’emigrazione di fine Ottocento dalla Tunisia.
Tutti gli aneddoti si sono integrati con quelli arrivati in Turchia dal mondo arabo e dall’Iran.
Le conclusioni cui è giunto Ahmed Shehata Ibrahum Obeadallah fanno difatti riferimento al fatto che entrambe le civiltà, quella araba e quella turca, hanno prelevato elementi l’una dall’altra nel ciclo narrativo di Ğuḥā/ Naṣru-d-dīn Hodja: l’influenza è stata reciproca reciproca in quanto ogni cultura ha preso e aggiunto al proprio patrimonio ciò che si adattava meglio alle diverse tradizioni locali.
Giufà e re Salomone: il libro di Ascanio Celestini
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Su Giufà Ascanio Celestini, attore e scrittore romano, ha scritto:
Secondo alcuni Giufà non è mai morto, | è riuscito a scappare alla morte talmente tante volte | che ancora sta scappando e ancora gira per il mondo. | […] Qualcun altro invece racconta ‘sta storia. | Che un bel giorno Giufà vide l’angelo della morte. | L’angelo della morte lo guardava strano…
Questo l’incipit di uno dei suoi brillanti racconti ed ecco il preambolo in versi:
Qui si racconta di come morì Giufà
Secondo qualcuno Giufà non è mai
morto, è riuscito a scappare alla morte
talmente tante volte che ancora sta
scappando e ancora gira per il mondo.
Secondo qualcun altro, invece, un bel
giorno mentre camminava per strada,
si girò di scatto, vide la sua ombra, si
mise talmente tanta paura che gli prese
il crepacuore.
L’incontro di Giufà con il re Salomone si ritrova nel godibilissimo racconto Giufà e re Salomone di Ascanio Celestini che, contenuto in Ceccafumo, è stato ripreso e riscritto dall’autore con illustrazioni di Maja Celija (Donzelli editore, Roma, 2009). Benché il personaggio non sia inquadrabile nelle categorie tradizionali dello sciocco, del furbo e del saggio, la narrazione lo presenta come colui che va incontro alla buona fortuna per la sua capacità di azione dettata dai consigli ricevuti. Non c’è in lui contraddizione tra la lettera del discorso e il significato che essa nel contesto assume. Bisogna dire che, diversamente dalla tradizione, il linguaggio non è più il motivo centrale della tradizione.
Stavolta, Giufà ne sa cogliere la metafora e senza alcuna incongruenza sa applicarla alle circostanze. La reinvenzione è ora avvenuta originalmente, attingendo in modo vivace dal repertorio favolistico: saggio sicuramente appare Giufà nel senso che non cede agli impulsi e regola l’emotività, facendo prevalere la riflessioni.
I dialoghi, immediati ed essenziali, destano interesse e curiosità, mentre la spigliatezza espositiva si sintonizza con il modo di essere e sentire dei piccoli lettori. I dialoghi, immediati ed essenziali, destano interesse e curiosità, mentre la semplicità espositiva si sintonizza con il modo di essere e sentire dei piccoli lettori.
Stavolta Giufà è un operaio alla corte del sovrano, il quale dava consigli facendosi pagare sei soldi Il nostro personaggio, dopo avergli manifestato la voglia di andar via e tornare a casa dopo trent’anni di lavoro, riceve la giusta liquidazione di diciotto soldi unitamente ad una pagnotta. Giufà, ricordando che il re era famoso per i consigli da questi dati, gli avanza richiesta di averne qualcuno. Ne riceve tre al costo di sei soldi ciascuno, espressi a mo’ di sentenza proverbiale: “Non lasciare mai la strada vecchia per la nuova”; “Quello che vedi… vedi! Quello che senti… senti!”; “Ascoltami Giufà, prima pensa e poi fa!}”.
Nel corso del tragitto, le vicende gli richiamano i consigli ricevuti ed egli li mette in atto, ricavandone benefici. Se non li avesse ricevuti, sarebbe andato incontro a grossi guai:
<quote>Pensava‘ Meno male che c’era il consiglio di re Salomone. L’ho pagato sei soldi, però m’è servito!’. Sorprende la scena descritta al ritorno a casa. Giufà trova la moglie abbracciata a un prete: Mia moglie s’è trovata l’amante. Mo
faccio un macello!.
Ma il terzo consiglio lo frena dall’impulso distruttivo. Poi, la moglie gli dice che il prete è il loro figlio:
In tutti questi anni che sei stato fuori, io gli ho trovato un lavoro sicuro. L’ho fatto studiare da prete, e lo stesso giorno che è tornato lui… sei tornato pure tu.
La ricompensa finale sta nel dono della pagnotta: spezzata in due per mangiare insieme, da essa cadono diciotto soldi d’oro e anche un fogliettino di carta recante, a firma di re Salomone, una scritta a mo’ di morale.
Le storie di Giufà per i ragazzini
Concludendo, e prendendo come punto di riferimento tali racconti, i ragazzini amano le storie di Giufà: il personaggio li diverte e, oltre alle riflessioni che esse producono, restano incantati da insolite azioni e da un linguaggio da decifrare in tutti i dettagli.
Proprio la dimensione di fruizione e di elaborazione linguistica, secondo Winnicott, è il fondamento dello sviluppo immaginativo e di tutte le altre facoltà che contribuiscono alla formazione di una mente critica, capace di pensare.
Non si può ora non concludere dicendo che le storie di Giufà, oltre a sollecitare l’immaginario, ripescando la tradizione ormai smarrita dalla società liquidida e postmoderna, fanno riflettere sui comportamenti e dialogare per la scoperta di valori condivisi. Il rapporto con questo personaggio, che racchiude tante sfaccettature relative ai pregi e ai difetti degli umani, contribuisce alla crescita valoriale e fa guardare la realtà con la leggera tenerezza del sorriso bonario che fa sempre volare in alto.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Giufà e re Salomone: la reinvenzione del personaggio di Giufà nella narrazione fiabesca
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