Nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 moriva, brutalmente assassinato, Pier Paolo Pasolini. Quarantasette anni dopo permangono ancora i dubbi e i misteri sulle circostanze di quella morte; quel che è certo è che fu la fine, amara, di una vita spesa “dentro una lirica come ogni ossesso”.
In una delle sue poesie più note, dal titolo Gli Italiani, Pasolini già prefigurava:
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
Erano, le sue, parole piene di sdegno, inserite in una lirica dai toni ancora più disillusi che si caricavano di una forte valenza di denuncia. Gli italiani, ieri come allora, erano definiti vili, passivi, un popolo incapace di indignarsi davvero di fronte alle ingiustizie. Risuona nei versi pasoliniani l’eco potente delle parole di Antonio Gramsci “odio gli indifferenti”: vivere vuol dire essere partigiani, chi vive veramente non può non essere cittadino e parteggiare. La poesia di Pasolini deve essere letta in quest’ottica, come un richiamo al senso civico che abbiamo perduto. Tra le righe possiamo avvertire l’urlo indignato del Poeta, l’appello accorato a riconsiderare l’umano nel suo valore irripetibile, nello specifico la nostra identità di esseri umani.
La società degli anni Settanta in cui viveva Pasolini non è poi molto diversa da quella attuale: vi ritroviamo la stessa ipocrisia chi sta sempre dalla parte della ragione e non si schiera mai da quella del torto, la stessa svalutazione degli ideali, lo stesso passivo senso di omologazione. Se il P.P.P. potesse vedere l’Italia del 2022 di certo si stupirebbe di quanto ancora risuonino attuali le sue considerazioni - o, forse, non si stupirebbe per niente e questa sarebbe solo l’ennesima conferma che gli Italiani in fondo non sono cambiati, che le sue accuse in fondo erano fondate.
Nel giorno dell’anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini leggere questa lirica mette i brividi, perché ci sentiamo tutti chiamati in causa - tutti noi, complici di una giustizia a metà: italiani davvero, italiani fino al midollo, ancora incapaci di indignarci per quello che a tutti gli effetti deve essere definito un “assassinio” e che invece ci ostiniamo a tacere come una fine vigliacca.
Scopriamone testo, analisi e commento.
“Gli italiani” di Pier Paolo Pasolini: testo
L’intelligenza non avrà mai peso, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterraida uno dei milioni d’anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.Mostrare la mia faccia, la mia magrezza -
alzare la mia sola puerile voce -
non ha più senso: la viltà avvezzaa vedere morire nel modo più atroce
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
“Gli italiani” di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento
La poesia si apre con parole lapidarie, con un incipit accusatorio che afferma:
L’intelligenza non avrà peso mai, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Pasolini rimarca come l’intelligenza e la cultura siano, di fatto, svalutate nel marasma dell’opinione pubblica dove è tutto un gran vociare, come di chiacchiere di mercato, e alla fine trionfa chi grida di più e non chi dice le cose giuste. L’opinione pubblica non è che un continuo berciare nel cui concitato cicaleccio alla fine annega ogni senso.
Con acume il Poeta definisce gli italiani come “un popolo dissociato da secoli” che è incapace di riunirsi e accordarsi in nome di un benessere comune, di una società più saggia e attenta ai valori umani che appare come una pura utopia. Questa definizione di “popolo dissociato”, a ben vedere, calza a pennello perché evidenzia come gli italiani siamo sempre e comunque divisi persino all’interno delle stesse fazioni, degli stessi partiti politici: prevale sempre, indistintamente, l’egoismo individuale, la meschinità, sul benessere collettivo.
L’accusa che Pasolini muove agli italiani è delle peggiori: l’indifferenza. Da questa folla vociante di indifferenti lui tuttavia si dissocia, rimarcando l’inutilità della sua persona: lui solo, con la sua voce puerile e femminea, la sua magrezza, non riuscirà certo a cambiare le cose.
In un moto di protesta P.P.P. dichiara l’insensatezza della sua ribellione solitaria ma, al contempo, ne afferma l’imperiosa necessità nel finale:
Io muoio - ed anche questo mi nuoce.
Pier Paolo Pasolini sapeva di essere solo e di essere destinato a morire da solo, nell’indifferenza dilagante altrui. La sua tragedia umana non era solo individuale - ma anche collettiva, riguardava un intero Paese - in ogni caso era una pena che sapeva bene di essere costretto a scontare in solitudine nel percorso già tracciato che contraddistingue tutte le vite mortali.
In quegli ultimi due versi c’era una prefigurazione della sua stessa morte, una profezia amara di quello che sarebbe stato il 2 novembre 1975.
Pasolini è morto, ma le sue parole restano. Non ci rimane che accoglierle per trasformarle in luce e farle risplendere nella nostra individualità preziosa che in realtà è di tutti. Nella non-indifferenza collettiva che lui aveva sognato facendo della poesia stessa la propria “civiltà ideale”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Gli italiani”: la poesia di Pier Paolo Pasolini, appello al nostro senso civico
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