Goethe muore
- Autore: Thomas Bernhard
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Adelphi
- Anno di pubblicazione: 2013
In quarta di copertina è scritto che questo “piccolo gioiello” contiene in nuce tutto Thomas Bernhard. E in effetti ritroviamo nei quattro racconti qui antologizzati le ossessioni, il sarcasmo, il dolore e la rabbia che caratterizzano l’intera produzione dell’autore austriaco (1931-1989). Persino i tic stilistici, esasperati quasi a creare volutamente un effetto comico e straniante (le ripetizioni, gli intercalari, le inserzioni e le sottolineature del parlato).
Già dal primo brano, che dà il titolo al volume (“Goethe muore”), il lettore si trova immerso in un’atmosfera ironicamente surreale, beffarda, con il Genio,
“il più grande in assoluto fra i tedeschi mai esistiti”, “il paralizzatore della letteratura tedesca”, “il grande spirito”
immobile sul suo letto di morte, alle prese con l’inventario finale del dato e avuto nella scrittura. Circondato dalla venerazione di signore e donnette, e dalla dubbia e litigiosa fedeltà di tre segretari-intellettuali (Kräuter, Riemer ed Eckermann), si convince improvvisamente della futilità di ogni letteratura, convertendosi alla superiore evidenza del pensiero filosofico. Esige pertanto di incontrare Wittgenstein, di poterlo ospitare a Weimar per discutere con lui su
“il dubitabile e il non dubitabile”
eclissando confini temporali e geografici: ma muore prima che il suo desiderio venga esaudito, e le sue ultime parole “Mehr nicht!” (Più niente!) vengono modificate dagli assistenti nelle celebrate e celebrative “Mehr licht!” (Più luce!). L’ironia sghignazzante di Thomas Bernhard sembra prendersi gioco di ogni accademismo letterario, di ogni pomposità culturale avvertita come fittizia e ingannevole.
Gli altri tre racconti scavano più direttamente nella biografia dell’autore, mettendo in luce il suo mai superato risentimento nei confronti dell’istituto familiare, castrante e oppressivo, e dell’ambiente claustrofobico e colpevolizzante della sua Austria. Quindi ci imbattiamo in un uomo adulto che tenta di sottrarsi alle persecuzioni dei genitori (ottusi e malevoli affaristi, privi di ogni sensibilità e cultura) rifugiandosi nella torre del palazzo avito in compagnia dei saggi illuminanti di Montaigne:
“Io non ho mai avuto un padre e non ho mai avuto una madre, ma ho avuto sempre il mio Montaigne. I miei procreatori, che mi rifiuto di chiamare padre e madre, mi hanno ripugnato fin dal primo momento, e io ho tratto molto presto le conseguenze di questa ripugnanza e mi sono buttato dritto dritto fra le braccia del mio Montaigne, la verità è questa”.
Il terzo, esilarante e drammatico racconto, vede di nuovo un figlio adulto che rievoca il suo tormentoso passato di bambino, obbligato a seguire i genitori in sadiche e punitive escursioni tra le montagne, in cerca di una quiete esteriore che non sapevano raggiungere interiormente: crudeli nell’esasperare la prole nel fisico e nel carattere, tentando di riscattare così i loro fallimenti esistenziali.
Infine, il falò apocalittico a cui Thomas Bernhard sottopone in sogno l’Austria cattolica e nazionalsocialista sembra voler ridurre in cenere l’intero universo che l’ha esiliato ed emarginato in una condanna economica e morale ingiusta e ingiustificata:
“L’intera disgustosa Austria ormai solo bestialmente fetida, con tutti i suoi volgari e abietti abitanti e con i suoi edifici famosi in tutto il mondo, chiese e conventi e teatri e sale da concerto, andava a fuoco e bruciava sotto i miei occhi”.
Rabbioso e dolorante, angosciato e deluso, Thomas Bernhard sembra trovare solo nell’invenzione della parola un porto sicuro di consolazione e conforto.
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