Hard Rain Falling
- Autore: Don Carpenter
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Edizioni Clichy
- Anno di pubblicazione: 2024
Accade, non tanto raramente, che dopo la lettura di un romanzo ci si possa stupire del fatto che l’aura ottenuta sembri maggiore di quella intrinseca o, al contrario, che l’opera ne meriti molta di più: Hard Rain Falling di Don Carpenter (Edizioni Clichy, 2024, traduzione di Fabio Cremonesi), uscito nel 1966, appartiene inequivocabilmente al gruppo dei secondi.
Vi appartiene per la trazione della trama; per un linguaggio, prevalentemente dialogico, che chiude la stagione dello (splendido) rococò di Faulkner e apre alle nuove tendenze degli underground, fino ad arrivare ai meravigliosi dialoghi di Cormac McCarthy; per le atmosfere inquietanti e morbose; per i personaggi per nulla idealizzati, antieroi eccentrici e disturbanti che galleggiano in un habitat ostile a causa degli eccessi, o troppo poveri, oppure troppo ricchi, troppo ignoranti o falsamente consapevoli.
I piani narrativi che innervano l’opera, intersecando le vite dei personaggi, coprono - negli Stati Uniti che sanno di polvere e buio - il periodo che va dalla grande depressione degli anni trenta, fino ai primi anni sessanta, oltre il tentato golpe anticastrista della Baia dei porci.
Tuttavia, la Storia che pure s’avverte impattare nella vita dei protagonisti, modellando il modo di pensare e di agire dell’uomo medio e delle credenze della società di massa, si snoda in secondo piano, fa da contenitore alle “vite agre” che vengono raccontate: in primis quella di Jack, il protagonista.
Jack è concepito da una coppia di improbabili genitori, emarginati e segnati dal cinismo degli anni della Grande depressione: lui muore in un banale incidente di lavoro e lei si suicida, il loro figlio cresce nella devastazione di un “orfanotrofio-lager” da cui fugge, nel primo dopoguerra, per unirsi a un gruppo di scapestrati che inventano un’esistenza ai limiti del possibile tra piccoli reati e tossicità delle bische dell’Oregon, dove l’esistenza, pigra e di contrabbando, stagna come acqua in una pozzanghera.
“Non gli andava di vedere un film di guerra. Di sicuro era una stronzata. Entrò in una drogheria del Corner, si prese una Coca-Cola e si mise ad aspettare che capitasse qualcosa di interessante”.
A Portland, Jack fa amicizia con un ragazzo di colore, Billy, straordinariamente dotato per il gioco del biliardo e che diviene uno dei personaggi chiave del romanzo, incarnando uno dei temi latenti: quello dell’identità razziale.
Dopo un surreale furto con scasso, Jack - che all’epoca avverte sola la pulsione della morte procurata e/o ottenuta – finisce in un ospedale psichiatrico, con i tratti di Qualcuno volò sul nido del cuculo, dove vive più mesi, descritti in maniera allucinata e sublime, in un’angusta e buia cella d’isolamento.
Quando, infine, esce dalla clinica, finisce in un albergo di terz’ordine con un suo compagno di bevute e due minorenni: è nudo sesso dipinto con una narrazione cruda, intermittente, senza la concessione stilistica di alcun orpello; da quell’esperienza Jack trae una forma di nuova consapevolezza: il senso del limite, l’irrilevanza del tutto, gli fanno meditare il suicidio.
“Ne sai abbastanza per capire che ciò che provi è insensato, ma non abbastanza per capire perché…. Sei in attesa di un paio di ragazze con cui fare un mucchio di cose che hai già fatto così tante volte che solo a pensarci ti si accappona la pelle … per un momento, si sentì montare la nausea, mentre la sua mente procedeva inerte verso l’idea del suicidio”.
Tuttavia, siccome il labirinto costruito da Carpenter non ammette vie d’uscita, neppure il suicidio è un’opzione: il sistema piccolo borghese degli Stati Uniti aspetta sornione. Jack fa ancora un passo falso e finisce in un penitenziario in California, dove rincontra Billy con il quale stringe un rapporto, complice la disperazione della solitudine, anche di tipo omosessuale; per l’epoca, il modo in cui Carpenter tratta il tema dell’omosessualità, siamo nel 1966, fu deflagrante: si può divenire omosessuali anche in virtù delle circostanze ambientali, così come si diventa impiegati o nullafacenti.
“… gli capitò di vedere un uomo infilare un anello di plastica al dito di un altro uomo. Entrambi avevano un aspetto ordinario, il primo era uno scassinatore e l’altro un ladro, ma avevano delle espressioni che Jack non ricordava di avere mai visto sul volto di un uomo.”
Billy muore per difendere Jack, senza che lui sia mai riuscito a dichiaragli il suo amore.
L’ultima parte racconta il matrimonio di Jack con la ricca e depravata Sally, il cui nome – diminutivo dell’ebraico “Sarah”, che rimanda al significato di “principessa” – è archetipico nella letteratura USA, per esempio è quello di uno dei personaggi chiave del Giovane Holden.
In un rocambolesco e, per la verità poco realistico, tourbillon di eventi, Jack, che diventa padre, subisce una trasformazione radicale, comincia a meditare sulla verità, sulla vita e il suo scopo, seguendo il filo della grande letteratura russa nella cui lettura cerca le risposte alle sue istanze etiche.
Ma non ci può essere lieto fine, la vita non lo può tollerare:
“Anche stavolta non è colpa di nessuno … nessuno è mai responsabile. Non secondo la nostra visione del mondo”.
In Don Carpenter siamo di fronte al pessimismo più estremo, ben oltre quello dell’interpretazione marxiana della storia: l’infelicità, la distopia del sistema, non dipendono dalla concentrazione della ricchezza, come per esempio in Francis Scott Fitzgerald: neppure negli anni che seguirono la Seconda guerra mondiale - con la tecnologia che creava nuove occupazioni e un quadro istituzionale, basato sulla contrattazione collettiva, che consentiva ai lavoratori di condividere gli incrementi di produttività - l’Uomo poteva dirsi felice!
Secondo Carpenter, questa status è incoerente con la vita; sia i poveri, sia i ricchi, questi ultimi mimati dal gruppo di miliardari che ruotano attorno a Sally, saranno sempre cronicamente inadeguati all’esistenza e pertanto in lotta tra essi e con la vita. Questo dipende dalla consapevolezza che il tempo ci spinge verso il bordo dell’esistenza: questa cognizione, tipica solo dell’Uomo, di fatto ci rende l’unica specie a essere mortale, tutte le altre, che non hanno questo sentore, è come non fossero soggette alla finitudine.
In un’intervista del 1975 Don Carpenter dichiarò di non vedere nessuna sovrastruttura morale nell’universo, orbo di Dio e della giustizia: questo punto di vista, trasfuso in Hard Rain Falling, rende il romanzo un labirinto di melanconia – magistralmente descritto – che mima l’intera nostra esistenza, pregna solo d’assenza e con nessuna via d’uscita.
Hard rain falling. Ediz. italiana
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Un libro perfetto per...
a chi ama la lettura americana, specie gli underground
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