I Diari di Sylvia Plath sono un riflesso specchiante della solitudine, un abisso sconfortante di consapevolezza in cui affondare con anima e corpo senza possibilità di scampo ma dischiudono, al contempo, una pulsazione inesausta di vita.
Leggendoli possiamo sentire quell’antica vanteria del cuore - decantata dalla poetessa nel suo unico romanzo La campana di vetro (1963) - che ostinatamente ripete: “Io sono, io sono, io sono”.
Oggi Sylvia Plath avrebbe compiuto 90 anni. La amiamo soprattutto per la sua poesia estremamente intima, dallo stile confessionale e particolarissimo, e ci affascina la sua tormentata parabola esistenziale che ci mostra una ragazza americana, così a modo, carina e intelligente, divorata dai suoi demoni interiori.
La poetessa triste ci scruta dalle foto in bianco e nero con il suo viso pulito, i grandi occhi trasparenti e fissi nell’obiettivo che sembrano quasi trapassarlo. Sylvia ha la frangetta ben pettinata e il sorriso chiaro, indossa camicette eleganti spesso di colore bianco, sembra una ragazza come tante, una ragazza come tutte. Su quelle foto spensierate si allunga però l’ombra tetra della sua morte: l’11 febbraio 1963, a soli trentun anni, quando Sylvia Plath sigillò a chiave la stanza dei bambini, Frieda e Nicholas, con cura e si recò in cucina per poi infilare la testa nel forno.
Una tragica fine, in realtà, annunciata. Perché è la scrittura - più delle fotografie - a rivelarci la vera Sylvia Plath in un contrasto di luci e ombre, in un susseguirsi di sfumature irrisolte. I diari della poetessa precipitano il lettore in un viaggio interiore, a tratti disturbante, perché Sylvia parla spesso della morte, e della solitudine, e del vuoto di senso insito nella vita.
In contrapposizione a tutto questo c’è anche la vita che scorre - che semplicemente accade - con le sue lusinghe, le sue proposte, i suoi avvenimenti inaspettati, l’amore travolgente (e disperato) per il marito, il poeta Ted Hughes, il matrimonio, il desiderio di un figlio, poi ancora il lavoro, la ricerca ostinata della perfezione letteraria.
I Diari di Sylvia Plath
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I Diari di Sylvia Plath ci consegnano l’avventura, irrisolta, di una vita. Iniziano nel 1950, quando Sylvia è una brillante studentessa di letteratura a Cambridge grazie a una borsa di studio. Al principio potrebbero essere la parabola avvincente di una qualsiasi bella ragazza americana approdata in Inghilterra che corre incontro al suo promettente futuro, invece ci sprofondano in spirali di incubi e paranoie, in attimi di nostalgia senza fondo e parentesi di solitudine.
Sylvia vuole diventare scrittrice e pretende da sé stessa il massimo; eppure la sua vita sembra non aderire mai a quell’ideale sublimato di perfezione.
Lei si tormenta, si sente sempre inadeguata e mancante, soffre di quella sua esistenza troppo introspettiva, troppo penetrata nella mente. Ci sono pagine in cui si auto elogia - sapeva, in fondo, di essere una grande scrittrice - e altre in cui si annienta.
La sua sensibilità acutissima è la vera grammatica che costruisce, pagina dopo pagina, questo libro di confessioni intime e laceranti. Un diario privato che è anche diario pubblico: perché nelle pagine di Sylvia studentessa tante ragazze potrebbero riconoscersi, c’è il rapporto di amore-odio con la madre Aurelia, le prime relazioni sentimentali, i viaggi per l’Europa, poi all’improvviso si sprofonda nel baratro della malattia mentale (la depressione) e delle terapie di elettroshock. Poi, di nuovo, la vita: l’amore per Ted Hughes, le prime pubblicazioni importanti, il matrimonio, la devozione totale alla scrittura.
Tra le righe vibra l’energia della follia creativa della Plath, sembra di sentire il battito di quel cuore parlante che afferma perentorio “io sono io sono io sono”. Il dualismo tra realtà e immaginazione, il dissidio interiore da lei vissuto, ci restituiscono il ritratto di una donna che, a ragione, è diventata un’icona. Il mito di Plath è stato alimentato sicuramente dal dramma del suo suicidio ma anche dal suo indiscusso talento di scrittrice: nel 1982 le sarebbe stato conferito, postumo, il premio Pulitzer per la raccolta Tutte le poesie.
Annientata dal suo troppo sentire, Sylvia Plath ora parla attraverso il suo Diario facendoci dono della sua sensibilità disarmante, chiedendo forse a noi, lettori, quell’empatia totale che sia schermo a ogni infelicità, quell’amore assoluto che non aveva mai trovato da viva nel suo transito mortale sulla terra.
Questi diari sono il romanzo di una vita, ma anche un’esplorazione - a tratti tragica, devastante - dell’animo umano in tutte le sue contraddizioni e conflitti interiori, angoscia e delizia di un’esistenza vissuta sempre in bilico tra due dimensioni insidiata dal presagio costante - e feroce - di una fine precoce che appare annunciata.
La fatica e lo sforzo di esistere vibrano in queste pagine consegnandoci orrore e bellezza, gioia e disperazione, tutta la suprema e ineffabile dicotomia del vivere.
Scopriamo le frasi più belle tratte dai diari di Sylvia Plath.
Le frasi più belle tratte dai Diari di Sylvia Plath
- Voglio scrivere perché ho bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita.
- Quello che mi spaventa di più, credo è la morte l’immaginazione. Quando il cielo lassù è solo rosa e i tetti sono solo neri: quella mente fotografica che paradossalmente dice la verità, ma una verità senza valore, sul mondo. Io desidero quello spirito di sintesi, quella forza «plasmante» che germoglia, prolifica e crea mondi suoi con più inentiva di Dio. Se sto seduta ferma e non faccio niente, il mondo continua a battere come un tamburo lento, senza senso. Dobbiamo muoverci, lavorare, fare sogni da realizzare; la povertà della vita senza sogni è troppo orribile da immaginare: è il peggior tipo di pazzia; il tipo con fantasie e allucinazioni sarebbe un sollievo degno di Bosch.
- Stavo sempre peggio. Non potevo essere altro che una scrittrice e non riuscivo a esserlo. Non riuscivo neanche a formulare una frase: paralizzata dalla paura da un’isteria fatale.
- Morire è un’arte, come qualsiasi altra cosa. Io lo faccio in un modo eccezionale. Io lo faccio che sembra un inferno, io lo faccio che sembra reale. Ammetterete che ho la vocazione.
- Luglio 1950. Forse non sarò mai felice, ma stasera sono contenta. Mi basta la casa vuota, un caldo, vago senso di stanchezza fisica per aver lavorato tutto il giorno al sole a piantare fragole rampicanti, un bicchiere di latte freddo zuccherato, una ciotola di mirtilli affogati nella panna. Ora capisco come la gente possa vivere senza leggere, senza studiare. Quando uno è così stanco, alla fine della giornata ha bisogno di dormire e il mattino dopo, all’alba, lo aspettano altre fragole da piantare, e così si va avanti a vivere, vicino alla terra. In momenti come questi sarei una stupida a chiedere di più.
- E allora impara a vivere. Tagliati una bella porzione di torta con le posate d’argento. Impara come fanno le foglie a crescere sugli alberi. Apri gli occhi. Impara come fa la luna a tramontare nel gelo della notte prima di Natale. Apri le narici. Annusa la neve. Lascia che la vita accada.
- Uscire per conto mio, pensare, lavorare da sola. Condurre un’esistenza separata. Devo possedere una vita che mi sostenga da dentro.
- Sono una scrittrice geniale; me lo sento. Sto scrivendo le poesie più belle di tutta la mia vita; mi renderanno famosa…
- Sono spaventata. Da cosa? Dalla vita senza aver vissuto, in primo luogo. Che cosa ha importanza? Fermati a domandarti perché ti lavi, perché ti vesti e diventi matta - è come se fossi circondata da amore, piacere, occasioni, ma non riuscissi a vederli. Parlo come un’isterica - e sento che sto per esplodere.
- La responsabilità del futuro mi pesa, mi terrorizza. Perché mai? Perché non riesco a essere pratica, sensata? (...) Ho bisogno di una vocazione e di sentirmi produttiva e invece mi sento inutile. Ignorante.
- E vedi se, con amore e fede, senza diventare acida, fredda e amara, puoi aiutare gli altri. Questa è redenzione. Offrire l’amore che si ha dentro. Coltivare l’amore per la vita, non importa quale, e dare agli altri. Generosamente.
- Perché non sono abbastanza presuntuosa da godermi quel che so fare senza aver paura?
- Fammi essere forte, forte di sonno e di intelligenza e forte di ossa e fibra; fammi imparare, attraverso questa disperazione, a distribuirmi: a sapere dove e a chi dare: (...) a riempire i brevi momenti e le chiacchiere casuali di quell’infuso speciale di devozione e amore che sono le nostre epifanie. A non essere amara. Risparmiamelo il finale, quel finale acido citrico aspro che scorre nelle vene delle donne in gamba e sole.
- La vita non è proprio altro che solitudine, malgrado tutti gli oppiacei, malgrado la stridula, posticcia allegria delle “feste” senza scopo, malgrado il sorriso falso che tutti indossiamo. (...) Ma la solitudine dell’anima, nella sua spaventosa autoconsapevolezza, è insopportabile, soverchiante.
- Oggi mamma mi ha scritto una lettera di massime utili; dapprima scettica come sempre, ho letto quel che ha colpito nel segno: "Se ti paragoni agli altri, rischi di diventare vanitosa o amara — perché ci saranno sempre persone più o meno importanti di te... Al di là di una sana disciplina, sii buona con te stessa. Sei anche tu una creatura dell’universo come gli alberi e le stelle; hai tutto il diritto di essere qui".
- Nostalgia, è questa la definizione comune del malessere che ora mi domina. Sono sola in camera mia, sospesa tra due mondi.
- Ho paura di affrontare me stessa. Sto tentando di farlo stanotte. Vorrei con tutto il cuore che esistesse una qualche forma di sapere assoluto, qualcuno a cui chiedere di giudicarmi e di dirmi la verità.
- Mi sentivo ed ero come un libro chiaro di parole sensibili e taglienti, nessuno sapeva intravederne le fragilità, si pungevano e andavano via. Sono sempre stata e mi sono sempre sentita come un libro aperto, circondato da analfabeti.
- Sta a me scegliere: scappare dalla vita e annientarmi definitivamente, perché non sono in grado di essere perfetta da subito, senza fatica o fallimenti, o affrontare la vita a modo mio e “lavorare al meglio”.
- Tutto fluiva su di me con un lancinante grido di dolore...ricorda, ricorda, questo sta accadendo ora, ora, ora. Vivilo, sentilo, stringilo. Voglio diventare pienamente conscia di tutto ciò che finora ho dato per scontato. Ti colpisce con più forza quando senti che potrebbe essere l’addio, l’ultima volta.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: I Diari di Sylvia Plath: le frasi più belle della poetessa
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