I due stendardi
- Autore: Lucien Rebatet
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Edizioni Settecolori
- Anno di pubblicazione: 2021
Arriva in Italia per la prima volta dopo settant’anni dalla sua pubblicazione con Gallimard, eppure è evidente che ha ancora qualcosa da dire, che la sua mole non risulta né polverosa né superata, e che probabilmente aprirà dibattiti nuovi su questioni antiche: si intitola I due stendardi (Edizioni Settecolori, 2021, trad. M. Settimini) ed è il capolavoro di Lucien Rebatet (1903-1972), scritto a partire dal 1943 e proseguito in carcere, dove l’autore si trovava dopo la condanna per fascismo e collaborazionismo.
Probabilmente la difficoltà di circolazione dell’opera, che nell’edizione italiana conta oltre 1400 pagine, in gran parte è quindi dovuta alle posizioni del suo creatore, che firmò peraltro pamphlet antisemiti e non rinnegò mai la sua visione antiparlamentarista, antiborghese, antidemocratica e anticattolica, anche se ancora di più dovevano risultare scomodi i suoi contenuti, costruiti su una dicotomia non facile da sbrogliare e da digerire perfino da parte dell’élite intellettuale.
Ci troviamo infatti di fronte a un romanzo sconfinato, dalle molteplici lingue e con uno sguardo moderno e caustico sul mondo circostante, rispetto al quale non vengono risparmiate considerazioni critiche (ora attraverso un’iperbole, ora mediante una vera e propria digressione) né si applicano scorciatoie narrative orientate all’appiattimento della complessità del reale.
Il risultato è un libro monstre, in cui i due stendardi del titolo vengono declinati con molteplici allusioni alla società e ai valori borghesi pre-guerra, da un lato, e alle trasformazioni dovute al conflitto mondiale dall’altro lato, a due concezioni quasi polarizzate dell’amore e della fede, del significato dell’esistenza stessa e dell’impegno politico, in un costante tête-à-tête fra idee più immediate da condividere e altrettante idee ardite, sconcertanti, lontane dalla morale dominante.
Senza dubbio, nel triangolo sentimentale fra Michel, Régis e Anne-Marie si annidano contraddizioni del singolo animo umano, osservate al microscopio e riportate sulla carta con parole vibranti, con l’attenzione maniacale di chi non rifugge la cronaca in diretta di un certo lavorio interiore, eppure in controluce si osserva con sempre maggiore cognizione di causa anche una prospettiva telescopica, capace di collegare fra loro punti in apparenza lontani, ma che poi insieme formano elaborate costellazioni.
La trama, di conseguenza, più che un pretesto risulta un palcoscenico in miniatura, la cui ombra proietta sul muro di fronte uno scenario ben più ampio: non solo emerge con una tridimensionalità conturbante lo scontro Michel-Régis e l’incontro di questi due uomini con una donna guarda caso portatrice di ben due nomi, a loro volta collegati a due distinti immaginari; per di più, al di là del poderoso fiume su cui navigano le loro passioni e riflessioni, la storia ci costringe a guardare alla Storia, a porci le ennesime domande su temi che credevamo ormai staticamente sepolti e archiviati.
Il tutto, peraltro, si sviluppa con la saggia lentezza di chi padroneggia diversi stili, con l’autorevolezza di chi sa produrre bellezza estetica a partire dal caos individuale e collettivo, con la consapevolezza di chi costruisce riferimenti indiretti a partire da castelli di carte, e viceversa, coinvolgendo nel flusso del racconto con pochi ma ben assestati tocchi da maestro, restituiti con ammirevole accuratezza da Marco Settimini nella sua traduzione italiana uscita l’8 luglio per le Edizioni Settecolori.
Si tratta, insomma, di un unicum letterario e metaletterario, di uno scrittore che non smette di essere sottoposto a processo per molteplici ragioni, e la cui stessa produzione è stata passata al vaglio della critica più spietata e più schierata. I due stendardi, però, non è certo un romanzo che si lascia ridurre a etichetta, o che perde con il tempo il suo potenziale esplosivo e dialettico: la sua luce dipende proprio dalla crepa che ha aperto a metà del secolo scorso, e che, volenti o nolenti, noi leggendo non possiamo cicatrizzare – soltanto ravvivare, ridiscutere, riguardare.
Fino a quando non saremo così stanchi e affascinati, così fiduciosi e ammaliati, da abbassare le armi e accantonare ogni pregiudizio, per assaporarne il ritmo ed esplorarne l’intreccio, per capirla fra le righe e lasciare che canti, che ci ammonisca, che ci disturbi, che ci delizi, che ci prenda e ci porti via, al riparo dai nostri schieramenti e sopra una terra brulla, da cui farci insegnare i passi ora deliranti e ora ambigui della vita.
“Mi spavento di meritare così poco la felicità che cresce di giorno in giorno. Cos’è che cerco, se non questa felicità? Cos’è che faccio per gli altri? Régis mi dice che ho continue occasioni per praticare l’altruismo cristiano, in casa mia o con le mie compagne. Ma per praticare la virtù, quelle sono piccole cose davvero miserabili. […] e pensa un po’, mi si rimprovera pure di non essere abbastanza religiosa! Perché ho sempre avuto orrore della bigotteria e delle preghiere ripetute a memoria. Quale terreno d’intesa trovare? No, Régis può parlare quanto gli pare di docilità, di correggere i miei piccoli errori di un tempo; avrei bisogno d’altri scopi che non quelle meschinerie contro le quali sarò fatalmente impotente. Come posso prepararmi, attraverso una tale vita, al destino che sogno?”
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: I due stendardi
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