I miei stupidi intenti
- Autore: Bernardo Zannoni
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Sellerio
- Anno di pubblicazione: 2021
I miei stupidi intenti, l’esordio letterario di Bernardo Zannoni, arriva in libreria sotto l’etichetta Sellerio, che è già di per sé sinonimo di buona qualità. La lettura conferma l’occhio lungo della casa editrice che, con la prima ristampa a sole tre settimane dall’uscita, può riconoscersi il piacevole merito di aver scoperto un ottimo talento di narratore. Sulla copertina accattivante campeggia il ritratto del protagonista del libro: una faina. Come nel miglior testo autobiografico che si rispetti, questa faina ci racconta la sua vita in prima persona, in quello che è una via di mezzo tra un memoir e un romanzo di formazione. Archy, è questo il nome del personaggio, rappresenta insieme il mondo animale e quello umano; ma non è né l’uno né l’altro, è piuttosto un ibrido nel modo di “sentire” l’esistenza e di viverla, per come ammicca a sentimenti, pensieri e riflessioni che, sfuggendo al dominio dell’istinto selvatico cui cede solo di rado, lo avvicinano dannatamente all’uomo.
Archy è solo un pretesto per Zannoni, è un artificio consolidato da sempre nel mondo narrativo per porsi e porre delle domande sull’esistenza. In questo caso, l’analisi si concentra sul rapporto tra istintualità e ragione: cosa avvicina o allontana l’uomo dalla bestia? Zannoni fa suo, con leggerezza e accessibilità, un leit motiv patrimonio della più alta letteratura italiana.
Giorgio Bassani ne Gli occhiali d’oro si chiede:
"Forse bisognerebbe essere così, sapere accettare la propria natura. Ma d’altra parte come si fa? È possibile pagare un prezzo simile? Nell’uomo c’è molto della bestia, eppure può, l’uomo, arrendersi? Ammettere di essere una bestia, e soltanto una bestia?”
Primo Levi, nei suoi Ranocchi sulla luna e altri animali e in Se questo è un uomo, parla del lager come luogo in cui la natura umana si altera al punto da trasformarsi e confondersi con la natura bestiale, in cui la differenza tra sommersi e salvati si compie proprio sulla capacità degli ultimi di abnegare la propria natura e dignità umana, rinunciare alla morale, e diventare così insensibili e spietati da compiere, senza rimorsi, qualsiasi atto, anche abietto, che possa assicurare loro la sopravvivenza, come le bestie.
Zannoni è abile nel raccontare questa tensione interiore e tiene il suo Archy sempre in bilico; lo trattiene nel rischio di precipitare nella sua natura bestiale oppure elevarsi a quella umana:
”Dio non aveva commesso altro errore se non quello di averci voluto partecipi, uomini e animali insieme”.
Archy si sente così vicino all’uomo da provare sensi di colpa per le sue manifestazioni ferine più efferate. La giovane faina si tortura quando rimane soggetto alle sue pulsioni, come la fame, il sesso, l’amore istintivo per Louise, invece di tendere alla saggezza che viene dal pensiero. Al contempo, non capisce il forte anelito all’evoluzione che sente, così poco bestiale, come l’attaccamento a un libro del mentore Solomon e che diviene croce e delizia di gran parte della sua storia.
Sulla sua strada Archy incontra due amori, perde pezzi della sua famiglia, impara a leggere e a scrivere; è proprio il rapporto con la scrittura a portarlo più lontano dal regno animale, avvicinandolo all’uomo. Conosce l’odio, lo sfruttamento, l’amicizia, sentimenti che prendono forma nei diversi rapporti che via via instaura con gli altri personaggi del regno animale, istrici, corvi, cani, gatti, linci, Gioele il vecchio cane che crede di essere nato da un nido di vespe (dice poesia è capace Zannoni!), Solomon, la volpe usuraia che sarà suo maestro di vita, di scrittura e fede; un variopinto mondo che vive sopra la collina dove abita con Gioele e Solomon.
Una parabola altalenante in cui i momenti sereni sono molto meno di quelli dolorosi e la collina è lo specchio della vita, che Zannoni descrive come una lotta da qualsiasi punto di vista la si osservi o viva, e in cui zampillano momenti di leggerezza e gentilezza poetica:
"Com’è lunga questa notte. Sembra ci voglia con sé per sempre, miserabili e sciocchi”.
I miei stupidi intenti possiede un’innegabile connotazione filosofica, in cui la giovane età dell’autore trapela solo nell’approccio, fresco e frontale, alle tematiche e al modo lineare in cui sono porte al lettore. Ne scaturiscono domande ricorrenti su una possibile dimensione trascendente: “Chi è Dio?”, “È il padre del mondo. L’unico che non muore”.
La vita può essere davvero solo la soddisfazione di bisogni primordiali o c’è qualcosa che ne domina ogni forma e che la pervade come una forza, sia essa interiore o esteriore, che trascende la sola dimensione dei bisogni materiali e a cui si può tendere? E quale è il ruolo di Dio in tutto questo, se c’è un Dio anche per Archy e i suoi simili: “Gli animali conoscono Dio?”.
Quest’ultimo tema, la religione, è ricorrente nel libro e implica l’altro argomento con cui si misura il protagonista: la morte. Archy comprende subito, fin dalla nascita, che la vita è mistero e se la morte ne sia parte o fine ultimo è la domanda che si pone in tutta la sua esperienza esistenziale. Il timore della morte che lambisce il protagonista e con cui questi si misura ogni giorno è simbolo della lotta per la sopravvivenza tipica del regno animale cui appartiene e, al contempo, il fil rouge di tutte le vite, animali e umane. Finché Archy è giovane, il senso di precarietà dovuto alla morte è sempre in agguato, anche se lontano, poi quando diventa anziano lascia il posto, in un singolare e significativo rapporto inversamente proporzionale alla durata della vita che rimane, a un attaccamento viscerale a essa: più il tempo diminuisce, più la sua gioia di vivere aumenta.
Zannoni riflette sulla contraddizione che solo quando la morte è vicina, per assurdo, finisce con l’allontanarsi davvero. Siamo noi, infatti, a scacciarne il pensiero, ad allontanarcene, finalmente: "La morte la uccidi se non ci pensi. Perché non è adesso”. Così avviene negli ultimi giorni del suo mentore, Solomon, la vecchia volpe usuraia da cui è stato abbandonato, appena cucciolo, da una madre anaffettiva al prezzo di “una gallina e mezza”; e così accadrà a lui, in una specie di contrappasso:
“Mai avrei detto di poter morire a questo mondo. Dovendo morire, il mondo mi diceva che non era mio”.
La sorpresa consistente di questo libro è proprio il modo in cui l’autore, malgrado sia così giovane (ricordiamo che ha 26 anni, ma ha scritto il libro cinque anni fa), gioca sulla pagina con tematiche ancestrali. Le maneggia con destrezza, esprimendone i caratteri a tutto tondo, con una profondità di analisi che attribuiremmo più consuetamente a un’età adulta. Invece Zannoni le affronta con sobrietà, senza cadute nella retorica, che pure è sempre dietro l’angolo quando si tratta degli argomenti e rapporti descritti: diversità fisica e mentale, abbandono, debolezza, anaffettività, disfunzionalità, accoglienza, dolore, rapporto con Dio, filosofia esistenziale, l’esistenza di un’entità soprannaturale in grado di cambiare il rapporto con gli eventi; la fiducia, l’incomprensione, la ferocia e la sopraffazione espressa nella legge del più forte.
Tutto è maneggiato con una lingua che taglia di netto, cruda dove serve, che si infiamma per poi placarsi, seguendo il contenuto della narrazione, che esprime la creatività e la concretezza dell’autore e ne interpreta fedelmente lo sguardo cristallino. Uno stile evocativo, quando necessario, e una voce asciutta che approfondisce, senza mai ripiegarsi su se stessa, che riflette, senza impuntarsi per non appesantire la narrazione.
Zannoni non macchia il racconto neppure con tinte eccessivamente cupe, né si avvicina troppo ai sentimenti che descrive e riesce così a non scivolare mai nell’ovvio, nel luogo comune del sentimentalismo. Il suo sguardo si mantiene sempre equidistante e la narrazione sapientemente lucida che si esprime al meglio nell’incipit folgorante, coinvolgente:
“Mio padre morì perché era un ladro. Rubò tre volte nei campi di Zò, e alla quarta l’uomo lo prese. Gli sparò nella pancia, gli strappò la gallina di bocca e poi lo legò a un lato del recinto come avvertimento. Lasciava la sua compagna con sei cuccioli sulla testa, in pieno inverno, con la neve”.
Nella parte centrale, forse, ho sentito un po’ la mancanza di una tensione forte, spinta al massimo, che mi aiutasse a divenire consanguinea di Archy, quel tocco che ne movimentasse un po’ il ritmo, ma è un peccato veniale che nulla toglie a una struttura ben padroneggiata e alla storia, ricca e piena di spunti per il lettore attento, che non cerchi facili accostamenti a letterature antiche e moraleggianti.
Bernardo Zannoni è uno scrittore con i piedi per terra, che non si perde in voli pindarici, ma in riflessioni profonde dalle quali entra e esce con facilità, per questo ci ha regalato un libro fruibile e da leggere con la consapevolezza che è solo l’inizio, un buon inizio, per questo giovane autore che sembra abbia tanto da dire.
I miei stupidi intenti
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: I miei stupidi intenti
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