Il dio delle zecche
- Autore: Danilo Dolci
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Mondadori
Nell’opera “Il Dio delle zecche” (Mondadori, 1976) Danilo Dolci dà un notevolissimo esempio di come la poesia interpreti il senso e la portata del luogo dell’esistenza.
Dal “meditativo contemplare”, che prelude all’ecologia, prende il via un discorso tutto intessuto di rapporti tra organismi viventi e ambiente; il rifiuto di ogni squilibrio è assoluto e la sua presenza è introdotta dal “Dio delle zecche”: l’uomo inceneritore di “chi ama altro dio” e “seminatore di cancro nella sua famiglia”. Dolorosa è la sensibilità del poeta quando volge lo sguardo allo spazio violentemente saccheggiato:
“...lui, l’avvelenatore / di fiumi azzurri laghi nitidi mari / spogliatore a verdi foreste / di ogni foglia / rapace sterminatore / di famiglie di pesci e uccelli - / lui, assassino / per ornarsi della pelle dell’altro / lui, chi non macella a furia lo spinala / prigioniero fino al macello / lui belva sorridente”.
Questa profondità del sentire è espressa con rabbia e con l’orgoglio dell’invettiva come denuncia civile. Non è tuttavia assente in altri componimenti il sogno liberatore, cioè la coscienza dalle sanguigne spinte etiche:
“Vince chi resiste alla nausea / chi perde meno / chi non ha da perdere / vince chi resiste / alla tentazione / tentazione di evadere / vince chi resiste alle tentazioni / chi cerca di non smarrire il senso / la direzione”.
La scrittura poetica di Danilo Dolci, sostenuta da una ispirazione contestatrice che gli fa usare la sferza, si muove tra la decostruzione del negativo e l’utopia visionaria alimentata dal bisogno di risvegliare i dormienti. È in tale dialettica il modo di percepire il divino. Il Dio di Danilo Dolci è in divenire; egli avverte l’esigenza di una ricerca continua che di continuo muti le sue prospettive. In un certo senso, si colloca nella tradizione filosofica della evoluzione creatrice. Alternativo alle stabili certezze è il suo modo di pensare e di agire. Se il Dio delle zecche privilegia i padroni, il suo è invece nel dubitare e nel ricercare:
“Non solo la visione urge mutare / di Dio: / mutare Dio, / il suo rapporto con le creature - / non scoprirlo diverso: / che divenga diverso”.
Dunque, il “Dio del parto e delle partorienti”, il reggitore della “carriola carica” che si fa esperienza per rendere la vista ai ciechi e concretizzare l’incompiuto. L’adesione va al “Dio nutrito da ognuno ogni giorno” che libera dalle catene della schiavitù.
L’impeto di Danilo Dolci, riflessivo e non solamente ecologistico, esprime il valore massimo della “pace” intesa come “agone rivoluzionaria non violenta”, perché la violenza ha in sé “il germe del morire”. Ecco la nuova fisionomia verso cui tendere:
“L’uomo di pace dove passa affonda / invisibili radiche succhiando / liquori dalla terra e rifiorisce / e si infrutta succoso / – albero di alberi / albero animato / albero di colombe: / vede da dentro, / dai diversi dentro / – screpolando le croste soffocanti”.
È un archetipo l’albero. Alchemicamente riceve forma dalla parte più buia della terra: il sottosuolo dai cui umori si formano radici che fanno esplodere la verdeggiante vita in tutta la sua bellezza: il seme affonda e marcisce nel buio, risorge dall’oscurità come neonato dalle acque materne e fiorisce alla luce del sole. Albero come metafora dell’uomo: libero e pensante, meditativo e contemplativo. L’esperienza della fascinazione e della liberazione va ricercata nel vagare delle stelle, nel disseminare “attimi perfetti”, nell’agire contro ogni “sclerosi”, nella rivolta contro il Dio delle zecche e i suoi accoliti (da La vita eterna). Siamo nell’inseparabilità del buono e del bello, nella verità dell’umano, la cui materia è magma di sofferenza e di benessere, di repulsioni, di attrazioni ed emozioni nel mistero della vita.
Il Dio delle zecche
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