L’11 novembre 1843 Hans Christian Andersen pubblica Il brutto anatroccolo (titolo originale danese Den grimme ælling, Ndr) all’interno della raccolta I nuovi racconti (Nye Eventyr, Ndr).
Una fiaba che, in realtà, non è una semplice fiaba e sottintende una miriade di significati occulti, psicologici ed etici. Nelle fiabe narrate dallo scrittore danese possiamo infatti scorgere, celata tra le righe di una narrazione favolistica e incantatoria, la “misera prosa della vita” che attraverso il racconto riesce a sublimarsi e a diventare altro: una morale preziosa, una lezione esistenziale e, non da ultimo, un atto umano di solidarietà profonda.
Il brutto anatroccolo inizia con un incipit descrittivo che ci immerge nella natura avvicinandoci man mano, con una tecnica quasi cinematografica, al protagonista della storia che, come per miracolo, nasce proprio sotto gli occhi del lettore.
L’estate era iniziata; i campi agitavano le loro spighe dorate, mentre il fieno tagliato profumava la campagna. In un luogo appartato, nascosta da fitti cespugli vicini a un laghetto, mamma anatra aveva iniziato la nuova cova. Siccome riceveva pochissime visite, il tempo le passava molto lentamente ed era impaziente di vedere uscire dal guscio la propria prole… finalmente, uno dopo l’altro, i gusci scricchiolarono e lasciarono uscire alcuni adorabili anatroccoli gialli.
Di tutta la covata c’è solo un uovo che non si schiude, allarmando mamma anatra. Quando l’uovo finalmente si rompe e il piccolo ruzzola fuori, si scopre che è molto “molto grande e brutto”, diverso da tutti gli altri suoi fratelli.
Inizia così la storia del Brutto anatroccolo, come una favola triste che ci pone direttamente in empatia con il suo protagonista. L’affetto spontaneo che nutriamo nei confronti dell’anatroccolo diverso non è un’emozione casuale, perché attraverso il suo personaggio unico e singolare Hans Christian Andersen racconta anche la propria storia.
Il vero anatroccolo è Andersen stesso che, sin dall’infanzia, dovette fare i conti con la propria diversità e con l’emarginazione da parte dei suoi coetanei.
Il brutto anatroccolo è una fiaba breve che tuttavia contiene dei significati importanti: ci spiega cos’è la diversità, racconta il disagio dell’emarginazione, ma soprattutto ci invita a non cercare l’amore nei posti sbagliati. Il viaggio dell’anatroccolo, a ben vedere, è lo stesso compiuto da tutti noi nel corso della vita ma è anche l’autobiografia fiabesca di Hans Christian Andersen.
Il brutto anatroccolo: la trama della fiaba di Andersen
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La trama de Il brutto anatroccolo è molto lineare, fatto che senza dubbio ha contribuito ad alimentare la fortuna della fiaba.
Nella nidiata di anatroccoli ne nasce uno diverso dagli altri, molto grande e goffo. Mamma anatra all’inizio difende il proprio piccolino e cerca di accettare quel “figlio diverso” individuandone le qualità, ma infine si adegua alle regole del branco.
Il povero anatroccolo è così deriso dai suoi fratelli e dalle altre anatre che continuamente lo punzecchiano con dispetti e insulti. Sfinito dall’ennesima beffa, ecco che l’anatroccolo decide di fuggire dal pollaio e cercare da sé il proprio posto nel mondo.
Il viaggio è lungo e difficile, l’anatroccolo deve superare il lungo e freddo inverno, ma infine avviene l’incontro catartico con uno stormo di cigni. Guardando il proprio riflesso nello specchio di uno stagno l’anatroccolo scoprirà, con sorpresa, di essere uno di loro. I cigni ora gli fanno festa e lo accarezzano col becco, mentre lui timido si nasconde sotto l’ala. Tutti lo festeggiano come il “nuovo venuto” e ammirano la sua giovinezza perché “è il più bello di tutti”.
Il brutto anatroccolo: la morale della fiaba
Nel commovente finale Andersen dimostra il valore intrinseco di ciascuno di noi, svelando una verità molto moderna che si adegua alle più moderne teorie sociologiche e psicologiche: il contesto è fondamentale.
Nel pollaio l’anatroccolo pativa le pene peggiori ed era considerato una nullità, doveva cambiare contesto ed entrare nella sua “comunità naturale” per riappropriarsi del sé e valorizzare la sua individualità. In definitiva si scopre che l’anatroccolo non doveva cambiare o modificare il proprio essere per adeguarsi alla comunità d’appartenenza: era sempre stato un bellissimo cigno, solo ebbe la sfortuna di nascere in un pollaio, in mezzo a delle anatre schiamazzanti che non erano in grado di cogliere la sua bellezza.
Agli occhi delle anatre lui non era che un “diverso” perché non corrispondeva ai valori sociali (e soprattutto estetici) della comunità in cui era inserito. Gli insulti delle anatre nascevano essenzialmente dal pregiudizio, una forma di difesa psicologica originata dalla paura: era la paura della diversità a generare nelle anatre un sentimento di ostilità nei suoi confronti. Ma l’anatroccolo non era sbagliato, era semplicemente fuori-contesto: si trovava imprigionato in un mondo che non permetteva al suo talento e alle sue inclinazioni, persino alla sua bellezza, di emergere.
Hans Christian Andersen propone così un’implicita analisi del concetto di diversità dimostrando la necessità dell’accettazione dell’altro, della tolleranza e del rispetto. Il messaggio più profondo racchiuso nel racconto consiste proprio nel porre in rilievo il “valore intrinseco” di ciascuno: dentro ogni essere umano è racchiuso uno “splendido cigno”, che però non appare agli occhi di non sa vederlo.
La fiaba di Andersen, a ben vedere, ruota tutta attorno al complesso concetto di identità: lo scrittore ci racconta il viaggio dell’anatroccolo nel tentativo di riappropriarsi del proprio sé, rivendicando così il diritto naturale di essere venuto al mondo. Il brutto anatroccolo non subisce alcuna trasformazione fisica: semplicemente “diventa bello” perché viene accettato per quello che è, nella sua autenticità.
Il brutto anatroccolo: il vero significato della fiaba
Il brutto anatroccolo, infine, è il ritratto più compiuto di Hans Christian Andersen stesso. Proprio come il suo protagonista, Andersen fu bullizzato da bambino dai suoi coetanei perché era troppo sensibile e aveva modi effeminati. Una volta cresciuto, lo scrittore danese dovette fare i conti con la propria omosessualità, di cui possiamo ritrovare traccia in un altro suo racconto-capolavoro La sirenetta.
Secondo alcune testimonianze di suoi contemporanei anche Andersen era “goffo e ridicolo” proprio come l’anatroccolo. Alcuni scrivevano che c’era “qualcosa di strano e scomodo in lui, nella sua figura”.
Hans Christian Andersen subì molte umiliazioni nel corso della sua vita, anche a causa del suo aspetto fisico: aveva braccia e gambe molto lunghe, dimensioni sproporzionate e un naso importante. Il viaggio solitario intrapreso da Andersen - a differenza del suo protagonista piumato - è la scrittura: attraverso le parole il romanziere trova la chiave della sua liberazione e riesce, finalmente, a esprimere limpidamente la propria identità.
Proprio come l’eroe della sua fiaba anche Andersen riuscì infine a realizzare sé stesso, diventando uno scrittore, cosa per cui aveva lottato a lungo trasferendosi, solo e in giovanissima età, a Copenaghen, la capitale della Danimarca.
Il percorso di Andersen, come quello del suo anatroccolo, segue una via moralizzante: deve conoscere dolori e umiliazioni prima di approdare alla felicità.
Solo così il romanziere potrà giungere alla sua saggia conclusione:
Non importa che sia nato in un recinto d’anatre: l’importante è essere uscito da un uovo di cigno.
L’opera di Andersen fu definita oltraggiosa da Simon Meysling, rettore dell’università di Copenaghen, che in passato aveva maltrattato il futuro romanziere definendolo “un incapace”. Meysling tentò di bloccare la pubblicazione della fiaba sulle riviste dell’epoca, ma non la ebbe vinta. Alla fine l’anatroccolo-Andersen riuscì a ottenere la sua rivincita. Il racconto iniziò ad appassionare i lettori danesi e, presto, sarebbe stato amato dai lettori di tutto il mondo.
Questo successo inatteso tuttavia non rese Hans Christian Andersen superbo perché, nonostante fosse diventato un bellissimo cigno agli occhi del mondo, manteneva sempre la bontà spontanea degli umili di cuore. Perché un cuore buono - come ci insegna il finale de Il brutto anatroccolo - non diventa mai superbo.
Era troppo felice, ma non superbo, perché un cuore buono non diventa mai superbo! Ricordava com’era stato schernito e perseguitato, e ora invece sentiva dire che era il più bello di tutti gli uccelli.
Un giorno un critico letterario durante un’intervista chiese ad Hans Christian Andersen, ormai scrittore di fama, perché non si dedicasse alla stesura di una sua eventuale autobiografia. Il grande autore danese, sfoderando un sorriso arguto, rispose:
Ma l’ho già scritta. È il brutto anatroccolo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il brutto anatroccolo” di Andersen: la vera storia della fiaba e il suo significato psicologico
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