Il cardinale József Mindszenty e la rivolta di Budapest del 1956
- Autore: Vincenzo Mercante
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2019
"La storia è maestra di vita" recita un proverbio, ma c’è da chiedersi quanto esso sia vero. Indubbiamente il passato insegna, resta il fatto che l’essere umano ripete gli stessi errori, si macchia delle stesse crudeltà, fin dai tempi di Caino. La storia gronda sangue e ripropone sopraffazioni e abusi.
Un libro veritiero, autentico è Il cardinale József Mindszenty e la rivolta di Budapest del 1956 (Luglioeditore, 2019, p. 101) di Vincenzo Mercante, già professore di licei, scrittore, teologo, giornalista. L’intento dichiarato del saggio, da leggere tutto d’un fiato, materia incandescente che scuote le coscienze, è:
"Ma perché a 43 anni dalla sua scomparsa è doveroso ricordare questa alta figura di prelato? Perché fu lui a dar voce alla "chiesa del silenzio" dei Paesi dell’Est, e lo fece anche nei tempi in cui la Ostpolitik vaticana, delineata dall’allora monsignor Agostino Casaroli, impose un atteggiamento di silenzio di fronte ai regimi comunisti in vista di una certa normalizzazione con il nuovo corso politico del Vaticano".
È giunto il tempo di valorizzare la grande persona che egli fu, e di rivelare chiaramente che il comunismo ebbe intenti programmatici, messi in atto, agendo in odium fidei. Occorre molto equilibrio per affrontare temi così caldi, ed è merito di Mercante tenere sempre un tono non tendenzioso nella sua esposizione, priva di animosità.
Chi era József Mindszenty, che ruolo ebbe nella tormentata storia ungherese? Il prof. Mercante, oltre che su una ricca bibliografia sull’argomento, si basa su materiale “di prima mano”, ovvero sulle Memorie scritte dallo stesso cardinale, edite da Rusconi (1975), nelle quali leggiamo:
"Pubblico questo libro perché il mondo conosca il destino che il comunismo gli riserva prendendo esempio dall’Ungheria testimone di uno spaventoso terrore".
MEMORIE
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A tanta sofferenza dobbiamo rispetto.
In poche pagine sintetiche l’autore riassume la storia dell’Ungheria, deputata a fermare l’avanzata turca nel corso dei secoli. La figura nazionale che coagula il sentimento nazionale magiaro è il re cristiano Stefano, incoronato nell’anno 1000 e canonizzato nel 1083 da papa Gregorio VII. In queste radici si innesca la figura e l’operato di J. Mindszenty.
Don József è ordinato sacerdote nel 1915. Come parroco si occupa dei più miseri e diffonde la condizione economica disastrosa dei contadini in un foglio. Nel 1919 è già arrestato dal governo comunista di Béla Kun, ma presto rilasciato. Gli viene imposto di lasciare il sacerdozio e di dedicarsi al lavoro nei campi nell’azienda agricola di famiglia.
M. Horthy, un militare liberale conquista Budapest nel 1919 e nel 1920, diviene il primo capo dello Stato fino al 1944. Il Nostro riprende l’attività pastorale, parroco a soli 27 anni, attivo anche in politica ma rifiuta una carica parlamentare. È nominato vescovo a Veszprém nel 1944. Vorrebbe donare ai contadini gran parte delle terre di proprietà della diocesi, ma ne è impedito dai tedeschi in ritirata, che scatenano la caccia agli ebrei. Il presule li difende e invita la popolazione a nasconderli. Viene arrestato dai nazisti, condivide con i prigionieri il regime di pane e acqua, e gelo.
L’arrivo dei sovietici segna un momento tragico di esecuzioni e stupri verso cattolici e ortodossi. Si verificarono casi di pazzia derivati dalle persecuzioni. Gli aiuti giunti dalla Croce Rossa venivano erogati solo agli aderenti all’ideologia marxista.
Nel 1945 Mindszenty è eletto arcivescovo primate d’Ungheria a Esztergom. "La fede salverà la patria" è il suo motto. Il conflitto con il regime diventa inevitabile. Nel 1946 è eletto cardinale. Nel porre sul suo capo il berretto rosso, Pio XII gli sussurra:
"Tu sarai il primo dei trentadue a sopportare il martirio simboleggiato da questo colore rosso".
Nell’occasione visita i profughi ungheresi in vari città italiane. Sa cosa lo attende, per la difesa strenua della religione e della sovranazionalità del cattolicesimo. Protegge i cittadini tedeschi in Ungheria, perseguitati solo per la loro origine. Nel 1946 visita i campi carcerari di internamento a Buda e a Csepel, scrive al governi sulle loro tragiche condizioni. Viene dichiarato nemico del popolo, i giornali titolano: "A morte Mindszenty". Il parlamento vota la legge del boia che consente l’incriminazione di chiunque dissenta. I comunisti nottetempo nascondono armi sotto gli altari, come prove di sedizione. Intanto cechi slovacchi e tedeschi vengono cacciati oltre le frontiere, numero approssimativo: 650.000. Sferzante la protesta del primate. La sua processione da Budapest a Mariaremete è seguita da 100.000 devoti.
Nel 1948 è arrestato il suo segretario András Zakar e tradotto nel luogo di torture naziste in via Andrassy 60. Mindszenty scrive una lettera ai vicari capitolari:
"Sento prossima la mia carcerazione. Mai accetterò l’attuale democrazia comunista. [...] Qualora fosse sbandierata una mia confessione, dovete ritenerla un falso o la conseguenza delle torture. Mi incammino sulla via del Calvario sostenuto dalle vostre preghiere".
È arrestato il 26 dicembre 1948. Le torture per i prigionieri politici, sotto la guida del sadico Gàbor Péter, erano le seguenti:
"Battiture con manganelli sulle reni e sugli organi genitali, inserimento di aghi sotto le unghie, bruciatura delle ciglia con sigarette, somministrazione di droghe che distruggevano il sistema nervoso, impedimento del sonno, oscurità completa seguita da luce diretta, immobilità sotto la caduta di gocce d’acqua continue sulla testa".
Il nostro è rinchiuso in una cella oscura. Per essersi rifiutato di firmare false accuse viene picchiato fino allo svenimento. La cosa si ripete per 9 giorni, con l’accortezza di non ucciderlo. Quindi si è costretti a correre a colpi di frusta. Sottoposto a droghe, ridotto a un essere vegetativo, firma la confessione. Il 2 febbraio 1949 inizia il processo farsa. Egli viene condannato all’ergastolo, in celle umide e fetide piene di ragni e insetti.
Il 9 febbraio 1949 Giancarlo Pajetta tacciava il primate di ingenuità politica e di
"Essere stato ingannato dall’America e soprattutto dai contadini che volevano la terra e dagli operai che non volevano più i padroni".
Dopo 6 anni, date le pessime condizioni di salute e per motivi opportunistici, gli viene riservato un trattamento migliore. È liberato durante la rivoluzione del ’56. Ripara nell’ambasciata USA a Budapest fino al ’71. Può recarsi a Roma e in seguito a Vienna fino alla morte (1975).
Negli anni più duri il primate viene visitato e confortato da Padre Pio, in bilocazione. Episodio confermato dal frate stesso e da altri.
A Budapest nel ’56 200.00 persone marciano contro il regime. "Dieci anni di comunismo non erano bastati a domare gli ungheresi" scrive Mercante, che traccia il profilo di Imte Nagy, fondatore del "Fronte Patriottico" e capo del governo in quell’anno doloroso. Egli fallisce perché
"Era nato per essere un riformatore prudente [...] mentre si è ritrovato ad essere il simbolo di una rivoluzione che avrebbe preferito evitare".
"I soldati sovietici sui carri armati avvolgono la capitale in un cerchio di fuoco... [...] la gente armata assaltata le sedi della polizia segreta".
Una parte dell’esercito ungherese si rifiuta di sparare sulla gente. Il presule liberato è portato in processione e il popolo bacia le sue vesti. Egli supplica il popolo di evitare vendette private.
Poi... sappiamo come è andata: con 4000 carri armati e la caccia all’uomo casa per casa. Mercante puntualmente documenta e commenta: "Non si contano i morti. [...] Seguono le epurazioni". Con il governo Kádár.
"I sogni muoiono all’alba" scrive Montanelli sul "Corriere in data" 05.01.2007. Stupri e fuga di 500.000 ungheresi a piedi versi l’Austria. Il crollo del muro di Berlino era ancora troppo lontano. Però nella primavera del ’63 il cardinale Casaroli può incontrare Mindszenty e afferma che questi
"Si sentiva investito di una dignità radicata nella storia e nel diritto, il volto illuminato dal fuoco di due occhi d’acciaio".
Onore al martire della libertà e al suo popolo.
Il cardinale József Mindszenty e la rivolta di Budapest del 1956
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