Siamo abituati a considerarlo un argomento attuale; in realtà il femminicidio, sebbene ancora non fosse chiamato con questo nome, era un tema ricorrente nella letteratura. La parola è entrata soltanto di recente nella lingua italiana, ma non l’atto in sé, ovvero l’uomo che uccide la donna per vendicarsi di un torto subito o per affermare il proprio dominio, accecato dalla gelosia o dalla volontà di possesso. La forma suprema di violenza che vede la donna vittima in virtù del proprio genere, in ossequio a quella cultura maschile del possesso e della sopraffazione, è radicata nella società sin dai tempi antichi e la letteratura ce lo dimostra, a partire dallo stupro di Lucrezia narrato in Ab urbe condita di Tito Livio.
Il femminicidio in letteratura
Uno dei primi testi a dare testimonianza del femminicidio è la novella di Nastagio degli Onesti, contenuta nel Decameron di Giovanni Boccaccio, un’opera stampata nel 1353.
La vera svolta politica e sociale, oltre che letteraria, avviene però nell’Ottocento quando inizia a essere rivalutata la condizione femminile anche attraverso nuove protagoniste letterarie e le prime scrittrici donne di successo, come George Sand, Charlotte Bronte e Jane Austen, fanno capolino sulla scena editoriale. Con loro inizia a nascere una rappresentazione autonoma del soggetto femminile in letteratura e anche una nuova modalità di rappresentazione della donna. La svolta si ha poi con la narrativa verista in cui la pagina scritta si fa fotografia spesso spietata della realtà, denunciando torti, violenze, miserie.
La letteratura riflette i mutamenti sociali e diventa anche una fonte importante di apprendimento dell’evoluzione della relazione uomo-donna attraverso i secoli, in cui possiamo tuttavia ritrovare una costante: cambiano i tempi, i luoghi e il modus operandi dell’assassino, ma il femminicidio si ripete come un’eco divenendo la manifestazione suprema della gelosia, dell’accecamento dovuto a una passione - che oggi potremmo definire “insana” - tuttavia non spetta certo alla letteratura psicanalizzare.
Ciò che è curioso osservare, in ogni caso, è che le più celebri narrazioni di femminicidio nella letteratura italiana sono novelle e tutte scritte da autori uomini. Troviamo appunto in Boccaccio il grande precursore, seguito da Verga nell’Ottocento e nel Novecento da Pirandello.
Tre narrazioni distinte che convergono in un unico punto: l’uomo - l’amante tradito o respinto, il marito geloso o possessivo - uccide la donna che dice di amare.
Nastagio degli Onesti nel “Decameron” di Boccaccio
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La celebre novella di Boccaccio, narrata nella quinta giornata del Decameron, è ambientata nella Ravenna duecentesca. Qui troviamo Nastagio, un nobile che ha ereditato grandi ricchezze, ma non riesce a conquistare la bella donna - anch’ella nobile e più ricca di lui - di cui è innamorato.
La passione di Nastagio si trasforma in una vera e propria ossessione, al punto che lo indebolisce e lo fa deperire fisicamente. Gli amici quindi gli consigliano di cambiare città, sperando che così possa dimenticare la propria pena d’amore e lui, dopo alcune resistenze, accetta il consiglio.
Nella nuova residenza, presso il Lido di Chiassi, Nastagio assiste a un evento singolare, la cosiddetta caccia infernale: un macabro corteo che si ripete ogni venerdì, in cui un cavaliere nero insegue una fanciulla nuda e, dopo averla raggiunta, la uccide con un pugnale. Dopo aver compiuto il terribile atto il cavaliere la fa a brandelli e dà le sue interiora in pasto ai cani; ma una volta uccisa e realizzata l’esecuzione ecco che la donna risorge e la caccia ricomincia. Nastagio cerca di fermare il cavaliere e costui si rivela a lui dicendo di essere Guido degli Anastagi di Ferrara che, per l’amore non corrisposto della donna che insegue, si era tolto la vita con quella stessa arma, il pugnale che ora brandisce. La visione cui assiste Nastagio è quindi una punizione infernale voluta da Dio. A questo punto il protagonista ha un’illuminazione: decide di organizzare un sontuoso banchetto nella pineta di Chiassi e di invitare la donna di cui è innamorato. Sceglie di organizzarlo proprio di venerdì, in modo che la donna possa assistere alla macabra scena della “caccia infernale.”
Quest’ultima, inorridita da quella visione, accetta di sposare Nastagio per timore di fare la stessa fine della fanciulla smembrata dal cavaliere nero. L’aspetto più agghiacciante di questa novella, scritta nel Trecento, è che Boccaccio rende peccatrice una donna che ha rifiutato l’amore di un uomo, che si è arrogata il diritto - sacrosanto - di dire di no. Anche se la novella ha, apparentemente, un lieto fine: con la donna che di sua volontà accetta di sposare Nastagio, deve farci riflettere il fatto che la giovane si sottometta al matrimonio per paura di essere uccisa. Il Decameron è un libro scritto (e dedicato) alle donne, soprattutto alle donne del popolo, tuttavia - malgrado Boccaccio renda le donne protagoniste attive di tutte le storie - non sempre possiamo ritrovarci d’accordo con la sua morale che di certo risente dei tempi in cui la storia è stata scritta.
“La Lupa” di Giovanni Verga
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Nella novella più celebre della raccolta Vita dei campi, La Lupa (1880), Giovanni Verga ci narra di una donna non più giovane ma molto sensuale, definita “randagia”, che ha l’abitudine di sedurre gli uomini del villaggio. In paese viene definita “La Lupa” perché “non era sazia giammai”; una sorta di “Bocca di Rosa” ante-litteram che non andava mai in chiesa, ma era capace di far girare persino la testa al prete.
Nella novella Verga la descrive in questi termini:
Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane – era pallida come se avesse sempre addosso la malaria e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosee, che vi mangiavano.
Una donna provocante, una “mangiatrice” di uomini, che però ha un cuore - di cui il narratore ci mostra l’umanità - e si innamora perdutamente del giovane Nanni che però vuole sposare la figlia di lei, Maricchia. La Lupa di Verga inoltre ha delle caratteristiche molto moderne, perché è a tutti gli effetti una donna emancipata e, forse, proprio in questo sta la sua “colpa”, ovvero ciò che la rende malvista agli occhi degli abitanti del piccolo paesino contadino:
Lavorava cogli uomini, proprio come un uomo.
Nanni sposa Maricchia, ma la Lupa pretende che la coppia di giovani sposi continui a vivere nella propria stessa casa. Così la donna ha modo di compiere la propria seduzione sul giovane, facendolo cadere nel tranello del tradimento. Nanni cede alle lusinghe sessuali della Lupa, ma è poi divorato dai sensi di colpa. Intanto Maricchia informa il brigadiere del paese, sperando di risolvere così la questione. Nanni, non riuscendo a liberarsi dalla tentazione della donna (da lui definita “il diavolo”), decide che l’unica soluzione dunque è ucciderla per non cadere nel peccato. La novella si conclude con la Lupa che si dirige verso Nanni, con un mazzo di papaveri rossi in mano, e gli occhi fissi verso di lui che la attende con un’ascia in mano. I critici definirono La Lupa come il “dramma etico della sessualità”; ma chi davvero ha la colpa? Nel personaggio della Lupa, in verità molto umanamente descritto da Verga, troviamo l’ennesima rappresentazione della caccia alle streghe che continua a compiersi anche oggi, l’idea della donna tentatrice, provocatrice, colpevole di accendere le pulsioni sessuali del maschio. A ben vedere nella novella di Verga colei che viene descritta come il diavolo è l’unica innocente dell’intera vicenda, in un mondo dominato da passioni primitive e violente, lei si immola al sacrificio portando in omaggio dei fiori all’uomo che ama. La colpa è della ristretta mentalità di paese che continua ad additare il diverso ed emarginarlo, promulgando una cultura del pregiudizio e dell’ipocrisia. Possiamo davvero definire la Lupa di Verga come una vittima del patriarcato.
“La verità” di Pirandello
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Nel Novecento ci dà una nuova rappresentazione, forse più consapevole e compiuta del femminicidio, Luigi Pirandello con La verità, una novella pubblicata nel 1912 su "il Corriere della Sera" e compresa nella raccolta L’uomo solo del 1922.
Il protagonista è Saru Argentu, detto “Tarara”, un contadino ignorante che vive in campagna. La storia si apre in medias res con il protagonista convocato sul banco della Corte D’Assise, interrogato dal presidente della giuria.
L’uomo è impacciato e rivela tutte le abitudini grossolane delle persone ignoranti che non sanno come comportarsi in un’occasione formale. A malapena è in grado di rispondere alle domande che gli vengono poste; non sa dire neppure la sua età. Si scopre infine che l’uomo, Tarara, ha trentanove anni ed è imputato con l’accusa di aver ucciso la moglie, dopo aver scoperto il suo tradimento.
Il contadino viene descritto da Pirandello come un uomo dotato della “beata incoscienza delle bestie”, che non prova neppure l’ombra di un rimorso. Tarara è infatti un figlio del proprio tempo e della cultura patriarcale di un mondo arcaico ed è convinto di aver agito secondo giustizia, vendicando il proprio onore. È infatti convinto che l’assassinio da lui compiuto non riguardi gli altri, ovvero i membri della giuria che ora lo giudica impietosamente, ma soltanto lui. Tarara pensa di aver risolto, avvalendosi dell’uso della violenza, una “questione privata”.
Nella vita c’era la giustizia, come per la campagna le cattive annate.
Si scopre quindi che l’uomo ha colto la moglie, Rosaria, in flagrante adulterio col cavaliere don Agatino Fiorìca. Per vendicarsi del torto subito Tarara ha ucciso la moglie, la mattina del 10 dicembre 1911, con un colpo d’accetta.
Malgrado l’inoppugnabile verità dei fatti, l’uomo insiste a scagionarsi affermando che la colpa non è stata sua, ma della moglie che lo tradiva e incolpa persino un’altra donna - Graziella - la moglie borghese di Fiorìca che lo avrebbe dovuto rendere partecipe della tresca, anziché fargli scoprire l’adulterio. Nella logica di Tarara quindi lui non ha alcuna colpa, poiché ha fatto quello che è giusto in nome del suo onore violato. La novella di Pirandello si conclude con la condanna di Saru Argentu, detto Tarara, a tredici anni di reclusione in grazia della verità “così candidamente confessata”.
Pirandello, oltre a inserire nella sua storia il lieto fine ovvero l’uomo che paga per la propria colpa, nella sua morale ci fa riflettere sull’ingranaggio marcio di una cultura patriarcale che vedeva - e tuttora vede - la donna come unica colpevole di un tradimento che, in virtù della sua colpa, merita di essere punita. Il delitto d’onore era ancora diffuso nella Sicilia del Novecento e certo non aveva nome di femminicidio.
Questa novella di Pirandello, dal titolo emblematico La verità, denuncia una situazione alla quale, a distanza di un secolo, non abbiamo trovato una soluzione. Quanti Tarara ci sono ancora nel mondo? E non tutti vengono puniti con la giusta pena, anzi, spesso vengono assolti impunemente.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il femminicidio in letteratura: Boccaccio, Verga, Pirandello
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