Il giapponese di Varsavia
- Autore: Shūsaku Endō
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2018
Al lettore ormai stancamente assuefatto agli artifici retorici e furbastri di molta narrativa contemporanea (il meta-racconto, la citazione colta e cifrata, l’allusione ammiccante allo scandaglio psicanalitico), le tre magistrali storie del giapponese Shūsaku Endō comprese in “Il giapponese di Varsavia” (con prefazione, traduzione e note di Tiziano Tosolini), sembreranno finalmente un soffio di aria fresca, di scrittura limpida e densa insieme, di riflessione etica sulla problematicità dello stare al mondo, rapportandosi collettivamente e individualmente sia al passato sia al futuro.
Shūsaku Endō è l’autore del voluminoso romanzo “Silenzio”, che ha ispirato il recente omonimo film di Martin Scorsese sulla persecuzione e il martirio dei cristiani nel Giappone del 1600. Diventato cattolico a tredici anni per volontà della famiglia, lo scrittore nipponico tornò spesso sulla problematicità del suo rapporto con la fede cristiana, sulla difficoltà di aderire ai dogmi e di praticarne i riti, sui dubbi riguardo al valore dei sacramenti. Nel primo (splendido!) dei tre racconti qui presentati, Un uomo di quarant’anni, ne parla esplicitamente, e in toni che rivelano una sorta di sofferto rancore verso l’imposizione subìta, rivalutata nel suo spessore culturale e nell’insegnamento morale solo nella maturità, dopo una vita di sofferenze e privazioni fisiche e materiali:
“Io, quando ero un bambino, sono stato battezzato per volere dei miei genitori, non per mia volontà. Proprio per questo ho per molto tempo frequentato la chiesa per formalità e abitudine. Ma da quel giorno in poi sapevo che non avrei ma più potuto sbarazzarmi di quell’abito che non mi calzava e con il quale i miei parenti mi avevano vestito. Con gli anni, quell’abito era diventato parte di me e sapevo che non avrei mai più potuto disfarmene, perché sarei rimasto senza un riparo per il mio corpo e per la mia anima”.
L’essere cristiano in Giappone, confrontandosi con una spiritualità e con cerimonie religiose totalmente diverse dalla propria, e in seguito recependo apporti intellettuali dal cattolicesimo europeo (Shūsaku Endō visse a lungo in Francia), condusse lo scrittore a sviluppare una sensibilità particolare, attenta ai temi del peccato e della grazia, della sofferenza e della redenzione, spesso tormentata dal senso di colpa e dal rovello interiore. Ritroviamo questi motivi nei tre racconti da poco pubblicati da EDB, e in particolare nel primo, che narra la degenza ospedaliera di un quarantenne sottoposto a successive e dolorose operazioni per un cancro all’intestino. L’ambiente asettico della clinica, la reticenza del personale, il costante enigmatico sorriso della moglie, l‘imbarazzo dei parenti in visita avvolgono il malato in un’atmosfera di sospesa finzione (“Ognuno sta simulando qualcosa”), e di aspettativa di un esito in qualche modo rivelatore. Suguro è paralizzato non solo dalla malattia e dagli anni di degenza (lo stesso Shūsaku Endō rimase a lungo ricoverato in ospedale per la tubercolosi, e fu a più riprese operato), ma soprattutto per la consapevolezza di una colpa commessa in passato, mai ammessa nemmeno in confessione, da tutti conosciuta e taciuta, che egli sente di poter condividere solo con lo sguardo umano e comprensivo del merlo indiano chiuso in gabbia nella sua stanza di moribondo, più indulgente di qualsiasi prete.
Nel secondo brano del 1965, il protagonista compie un pellegrinaggio turistico alle sorgenti solforose del monte Unzen, dove molti cristiani erano stati torturati e poi bruciati vivi, mentre altri avevano preferito abiurare alla loro fede pur di salvarsi, continuando a vivere però nel rimorso del tradimento e sotto il peso della loro viltà.
L’ultimo racconto, che dà il titolo al volume, Il giapponese di Varsavia, allude con intenerita ammirazione alla figura del frate polacco Massimiliano Kolbe, martire ad Aushwitz e canonizzato da Wojtyla, recuperato inaspettatamente nella memoria di alcuni turisti giapponesi in viaggio di piacere a Varsavia. Kolbe era stato missionario a Nagasaki negli anni Trenta, vi aveva fondato un convento e creato una rivista; il suo nobile profilo spirituale si impone come un severo e allo stesso tempo paterno monito morale a uno dei viaggiatori durante un incontro notturno con una giovane prostituta polacca: quasi un’epifania, a fondere insieme peccato e assoluzione, corpo e anima, sacro e profano.
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