Il giardino conteso. L’essere e l’ingannevole apparire
- Autore: Flavio Ermini
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2016
A un certo punto della lettura de “Il giardino conteso. L’essere e l’ingannevole apparire” di Flavio Ermini (Moretti & Vitali, 2016) la tentazione è stata quella di conferire un taglio diverso all’articolo che state leggendo. Avevo in mente di arrivare alle tesi portanti del libro limitandomi soltanto alla citazione dei suoi passi salienti. Poi mi sono accorto che erano una lunga teoria: fino a tal punto risuona densa, colta, funzionalmente lirica, poderosa, la scrittura di Flavio Ermini. Una scrittura capace di raccontarsi benissimo da sé, il cui nitore aforistico rimanda ad antecedenti illustri (Nietzsche, Cioran, il primo Sgalambro). E allora facciamo che vi passo in sintesi l’idea che mi sono fatto del saggio (quasi un lungo pamphlet), e il resto lo desumete da voi, sulla base dei due snodi testuali che ho scelto tra i tanti.
A cosa mira, dunque, “Il giardino conteso”? Ritengo a un disvelamento ontologico: l’esistenza è caduca, l’apparire un inganno, Dio una probabile perdita di tempo per distrarci dall’abisso. Solo l’immaginazione (in special modo l’immaginazione poetica) può ricondurci al senso autentico del nostro essere al mondo, può ricondurci all’esperienza originaria da cui proveniamo.
Il saggio si articola in sei parti, ciascuna delle quali illustra una stazione dell’antinomismo essere/apparire. L’aut-aut consiste nel vivere accorgendoci di vivere, oppure vegetare obnubilati dall’artificialità che ci assedia (vedi surplus di sollecitazioni tecnologiche). A sostegno di questa lettura gli stralci che seguono mi sembrano meritori di approfondimento. Il primo rivisita mirabilmente l’heideggeriano esser-ci per la morte:
“L’uomo, caduto nel tempo e nella finitudine, è prigioniero nell’angusta cella dell’universo. E’ consapevole che tutto è un rovinoso precipitare, un definitivo scomparire. Siamo noi quei nomi mai compiutamente pronunciati; siamo noi quelle figure spezzate in due: voliamo per un breve tratto accanto a un uccello assolutamente muto e subito dopo cadiamo a terra senza un lamento. C’è la volta del cielo da cui si cade e c’è il vuoto in cui si cade. Attraverso questa lacerazione si produce qualcosa come un incontro. Resta la cenere con cui fare i conti” (p. 67).
Il secondo è collocata più avanti e mi sembra riassuntivo della teleologia liberatoria proposta da Ermini:
“Stringiamo alleanza con la facoltà di immaginazione. Rendiamo possibile il matrimonio tra il terreno e il celeste; rendiamo possibile un mondo pervaso dalla pace e dalla bellezza. Un mondo in cui ogni conflitto si risolva senza armi; dove non sia necessario vendersi a un Dio per sbrigarsela bene con il futuro. Facciamo sì che l’utopia entri nel tempo, come pienezza di senso. Chiediamo sempre di più. Alziamo la posta in palio. Riprendiamo ad affermare i nostri diritti, così bene dichiarati nell’urlo ‘Vogliamo tutto’” (p. 160).
Io a questo punto quasi mi sono commosso, spero così molti fra voi.
Il giardino conteso. L'essere e l'ingannevole apparire
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